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lunedì 8 settembre 2014

«Quell’8 settembre del ’43»



di Lionello Bertoldi *
Nel marzo del 1941 avevo 12 anni e frequentavo la scuola media a Trento, dove arrivavo con la Valsugana, un lentissimo treno, che mi raccoglieva a Levico alle 5.30 del mattino. Mio padre, volontario o meno, lavorava militarizzato allo stabilimento Caproni di Gardolo. Faceva gli aeroplani . Chiusa e deserta la nostra officina per le automobili, rimaneva il piccolo negozio sotto casa per riparare le bici. A casa, con nostra madre, eravamo rimasti sette figli. Dei tre maschi della famiglia io ero il più grande e il capo. Avevamo scommesso solennemente che li avrei fatti mangiare tutti i giorni, naturalmente con le tessere. La caserma dell’artiglieria da montagna, lungo la strada per il lido, era piena di centinaia di uomini in divisa e la città viveva anche dei pochi consumi, che i militari potevano fare nella libera uscita. Mia madre e mia sorella più grande s’erano industriate , affittando le stanze del primo piano agli allievi ufficiali. Facevano anche da mangiare, con le tessere degli ufficiali, almeno un pasto al giorno. «Sig. Clerici, il disinare è pronto», era la cantilena di Wanda 4 anni , per avvertire. Gli allievi mangiavano in salotto. Io arrivavo a casa da Trento nel tardo pomeriggio. Mia madre mi preparava una zuppiera di riso e conserva. Io nascondevo il volto mangiandoci dentro. I miei fratelli già affamati mi guardavano golosi. Così per due anni. Uno scossone di felicità lo avevamo avuto il 25 luglio del 1943, ma l’8 settembre arrivò improvviso. Il tenente Clerici mi parlò da uomo. «Un vestito di tuo padre, una tuta, devo scappare». Non avevamo niente o quasi.Gli demmo una vecchia “telara”. Capimmo che era la fine della guerra, eravamo ansiosi e felici. Nostro padre sarebbe tornato a casa da Gardolo. La popolazione di Levico si riversò come un nugolo di cavallette affamate nella caserma deserta, da dove tutti erano fuggiti. Malgrado gli strilli e le raccomandazioni di mia madre, ci passai anch’io, seguito da mio fratello, come ombra protettiva . Aveva 4 anni meno di me. Scartata l’idea di portare a casa qualsiasi paccottiglia, raccogliemmo con occhi avidi tante cartoline colorate, che le belle dei soldati avevano spedito. Erano splendide. Raccogliemmo tre fucili 91, che avvolgemmo in stracci e trovammo un solo caricatore di cartucce. In un sacchetto portavamo 5 bombe a mano balilla, bianche e rosse. Uscimmo dalla caserma in mezzo alle imprecazioni e le minacce di altri presenti. Ci dirigemmo sulla strada nazionale all’uscita della città, verso Pergine. Seppellimmo i tre fucili sul tetto della casamatta del Merlezzo, sulla destra della strada verso la montagna. Non le bombe a mano balilla. Quelle le portammo di nascosto a casa e le nascondemmo in una nicchia alta nella cantina. Con mio fratellino complice non parlammo. Cosa ne avremmo fatto? Non lo sapevamo con esattezza , ma avremmo fatto. A chi potevamo chiedere ? Io ero il più grande, il capo. Levico sembrava un deserto. Rimanevano il maresciallo dei carabinieri e il prete. Il giorno dopo, meglio i giorni dopo arrivarono i tedeschi. Kriegsmarine Horstkommandantur, il comando della marina da guerra germanica occupò l’hotel Regina e l'albergo Rocca . Altri militari tedeschi riempirono la caserma abbandonata. Passeggiavano tranquilli da padroni . Diversi parlavano italiano. Mi impressionavano le motocarrozzette Zündapp. Anche mio padre tornò a casa dalla Caproni. Con preoccupazione lo vedemmo impaurito . Impaurito lui, il Gigi ! I tedeschi avevano intanto requisito la nostra officina e l’avevano circondata con le loro baracche. Io lavoravo nel nostro negozietto alle biciclette. Sarebbero occorsi ancora 20 lunghissimi mesi. Valeva ancora la scommessa di noi fratelli di mangiare ogni giorno. A scuola andavo a Caldonazzo nel Centro scolastico , 4 km in bicicletta in andata e quattro al ritorno. Una bellezza! In quella scuola seppi della strage di Malga Zonta, avvenuta sopra la nostra testa, lassù verso passo Coe. Diciassette giovani uccisi e seppelliti nel letame! Imparai subito a leggere e capire i cartelli “Achtung ! Bandengefahr Tag un Nacht “, ma era già il 1944. La paura e l’orrore sarebbero arrivati a settembre inoltrato, con la strage vista a Bassano. Trentuno i giovani impiccati, un gancio da macellaio, ai piccoli alberi lungo la strada. Mi accucciai nella mie paure, ma ormai ero un giovane anch’io, piccolo, ma un giovane, avevo 16 anni . Per questo cercai conforto e una indicazione , in Attilio Gabrielli e nel gigante Gasperazzo, il “ Tin Ton Tan”. Li trovai a Campiello , dove Attilio era sepolto sotto il pavimento di cucina e nella stalla del maso S. Desiderio a Novaledo. Mi cantarono sottovoce , sfottendomi “el bersagliere ga zento penne”. Loro sapevano ed avevano scelto . Da soli avevano scelto. Attilio andò in montagna, con la foto di cui era fiero , un busto del duce trascinato per le strade di Milano dalla sua fune. Mi chiese un libro da portare con se. Rubai a mio padre “Il tallone di ferro” di Jack London. La fuga dai bombardamenti e dai mitragliamenti era la ginnastica quotidiana. In testa mia madre salmodiante e dietro i sette fratelli e sorelle, fino al Masieron . Io e mio fratello guardavamo in su e cercavamo di vedere i Liberator .Qualcuno può meravigliarsi della felicità del 25 aprile ?

*presidente dell’Anpi
Fonte: http://altoadige.gelocal.it/tempo-libero/2014/09/07/news/quell-8-settembre-del-43-1.9892137

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