di Roberta Piger
Cercare, dissotterrare,
recuperare. Una professione scelta? Non proprio. L’attività di
“recuperante” nasce in seguito ai drammatici eventi causati dalla Grande
Guerra. Una guerra mondiale prepotente, dalle mani lunghe, che in un
giorno di maggio del 1915 raggiunse anche Cortina d’Ampezzo, a quel
tempo “Ampezzo”, tranquillo paese ladino amministrato dall’Impero
Austrungarico. Bella sfortuna per il paese trovarsi proprio sul confine
con l’Italia d’allora, che poco dopo aver dichiarato guerra all’Austria
inviò i suoi soldati a varcare il confine di Acquabona. Il 29 maggio
1915 Cortina fu occupata senza colpo ferire: i soldati italiani
entrarono senza incontrare avversari e senza sprecar nemmeno un colpo,
dal momento che i soldati austriaci e ampezzani si erano già trincerati
sulle vette attorno a Cortina adottando una strategia militare di
difesa, limitandosi ad impedire il passaggio delle truppe italiane. Cominciava così, quasi in sordina, la
Grande Guerra sulle Dolomiti d’Ampezzo, che per tre lunghi anni
diventarono terra irredenta, un trofeo ambito che i due eserciti si
giocarono senza esclusione di colpi, alcuni diventati clamorosi, altri
leggendari. Faceva male questa guerra tra vicini di casa: ampezzani e
austriaci improvvisamente nemici di cadorini e italiani, uomini
costretti a spararsi addosso, obbligati a diventare in fretta macchine
da guerra, umiliati da fame, freddo e paura, condizioni che, per la
tragica regola della vita, eliminavano i meno forti, quelli non
all’altezza di una simile pretesa da parte della Madrepatria. Spesso
tragicamente “fortunato” era considerato chi se ne andava presto,
subito. Magari intontito dalla droga o dalla grappa o rum mandato giù
per non sentire il terrore, con le gambe tremanti e negli occhi un
ultimo istante di supplica, e quell’ultimo immancabile pensiero rivolto
alle persone amate e lontane. Si moriva così, spesso chiamando “mamma!”,
in dieci, cento, mille. Bilancio pesante per un battibecco tra
regnanti. Nel 1918, alla fine del conflitto, in
Ampezzo cadde un silenzio colmo di dolore e rassegnazione. Reduci e
famiglie si trovarono disorientati, ridotti allo stremo e rapidamente
costretti a far fronte alle gravi conseguenze lasciate dall’occupazione
italiana. Alcuni abitanti non possedevano più nulla, nemmeno una casa,
poiché interi villaggi furono distrutti dal fuoco e le campagne
danneggiate non permettevano la coltivazione. Anche la natura mostrava
le sue ferite senza vergogna: i boschi erano spogli e stanchi ed in
molte zone si poteva vedere la carne viva delle rocce: una violenta
nudità provocata dallo scoppio delle mine. Alla popolazione si
presentava quindi la scelta di emigrare oppure di recuperare e vendere
il materiale bellico abbandonato lungo la linea del duplice fronte, un
lavoro duro ma indispensabile per l’immediata sopravvivenza.
Protagonista di quei tempi fu anche un bambino di dieci anni, Rolando
Lancedelli. Era il 1937 di famiglia povera, anziché frequentare la
scuola, per necessità fu mandato dalla nonna a recuperare i resti
bellici con gli zii. Non era certo uno spasso vagare per le montagne con
le scarpe tenute assieme dal fil di ferro, indossando abiti stracciati.
Ma Rolando, non avendo troppe alternative, con una fetta di polenta in
tasca per tutto il giorno e munito di un vecchio e pesante piccone che
sollevava a malapena, recuperava tutto quel che si poteva, per poi
rivendere ai grossisti di metalli che facevano tappa a Cortina ogni
sabato. Erano grosse fatiche, ma quando si trovavano tesori come mucchi
di cartucce rilucenti, al piccolo Rolando brillavano gli occhi, anche se
poi la sera doveva consegnare tutto il bottino in casa, agli zii. Fare
il recuperante era un lavoro a tutti gli effetti, forse non troppo
divertente per un bambino, ma perlomeno così si riusciva a rimediare
qualcosa da metter sotto i denti. La regola del recuperante era “quel
che trovi è tuo”. Col passar del tempo, Rolando apprendeva i piccoli
segreti dei recuperanti: come riconoscere i metalli, dove iniziare a
scavare, come scaricare le munizioni in sicurezza e separare i diversi
materiali. Si recuperavano bombe, filo spinato, rotoli di fil di ferro,
corde d’acciaio, stufe, esplosivi, proiettili, tubi, armi, pentole,
rame, piombo, alluminio e ottone. Lo Stato italiano retribuiva anche il
recupero delle salme tristemente abbandonate sui campi di battaglia, e
trovare uno scheletro era redditizio. Rolando ricorda nei racconti, che
molti recuperanti arrivarono al punto di saccheggiare i cimiteri per
poter guadagnare quelle poche, indispensabili lire. Un rituale macabro e
necessariamente sfrontato. Dati i tempi, la vita del recuperante
era faticosa e piena di pericoli in agguato, dovendo forzatamente
camminare tra gli ordigni inesplosi che fecero più di una vittima tra
gli sfortunati, o facilmente inesperti, che ebbero la sventura di
maneggiarli. Altri rischi erano rappresentati dalla natura stessa della
raccolta in montagna; a causa delle sue zone esposte e dai profondi
precipizi bastava un solo passo falso per precipitare nel vuoto. Tra i
mille ricordi di Rolando, spicca l’episodio in cui un giorno, trovato un
pesante rotolo di filo di piombo, per poterlo portare a valle lo
sistemò su di un pezzo di lamiera ondulata, che trascinò percorrendo un
sentiero lungo il fianco di un precipizio. Volendo spostare il carico
con maggior forza, il giovane recuperante iniziò a camminare
all’indietro, non accorgendosi di aver messo un piede nel vuoto. Si
salvò miracolosamente appendendosi alla corda agganciata alla lamiera,
che resse il suo peso non particolarmente abbondante, tenuto conto della
dieta forzata dettata dal difficile periodo post bellico. Altra
difficoltà da non sottovalutare per i recuperanti erano gli improvvisi
cambiamenti meteorologici, tipici dell’alta montagna, come il violento
temporale che sorprese Rolando e gli zii mentre rientravano da un
recupero. Fortunatamente ebbero la prontezza di ripararsi sotto due
massi lasciando il metallo raccolto vicino ad un albero a pochi metri di
distanza, che attirò immancabilmente un fulmine accecandoli per qualche
minuto, senza ulteriori conseguenze.
Per Rolando la vita di recuperante
terminò nel 1943, quando fu costretto a riporre pala e piccone, poiché
in quel periodo dopo 8 settembre 1943 le province di Bolzano, Trento e
Belluno erano occupate dai Germanici con amministrazione separata dal
resto dell'Italia. Il giovane fu arruolato dai tedeschi assieme ad altri
coetanei di Cortina, pronto alla malaugurata evenienza di dover partire
per il fronte russo vestendo la divisa germanica. Anche per Rolando,
nato e cresciuto accanto alla pesantezza di un dopoguerra, partire per
il fronte sarebbe stato compito crudelmente estremo, ben distante dal
tutto sommato, se pur difficile, mestiere di recuperante di rottami più o
meno arrugginiti, ma almeno vicino a casa e alla famiglia. Rientrato
salvo nel 1945, a guerra terminata, un’altra volta si ripresentarono i
tempi grami accompagnati dall’inseparabile necessità di sopravvivere,
che lo costrinse a vendere quanto rimasto in casa, frutto degli antichi
recuperi. Col passar del tempo le montagne, passate al setaccio dai
molti recuperanti, erano ormai ripulite dalla maggior parte dei resti di
guerra. L’attività di recuperante “per necessità”, adeguandosi ai
tempi, si trasformò, impegnando per passione della storia, poche persone
nella ricerca di cimeli. Rolando dovette dimenticare le ricerche lungo i
camminamenti, i fronti e le trincee nelle amate montagne, maestre di
vita e compagne di un’insolita infanzia, per dedicarsi ad attività più
redditizie. Con l’aiuto della moglie Elena, sposata nel 1952, aprì a
Cortina uno Ski Bar che costruì con le sue stesse mani, mattone per
mattone. Era il 1959, ed unitamente a quest’attività, per incrementare i
guadagni, svolse anche la professione di maestro di sci. Rolando fu il
primo maestro di sci di fondo di Cortina d’Ampezzo. Ad allietare il
matrimonio giunse il figlio, Loris. Si sa come vanno le cose, da cosa
nasce cosa, e il piccolo bar si trasformò in ristorante per ospitare
visitatori alla ricerca dei piatti della tradizione. Durante gli scavi
per la trasformazione dello chalet, Rolando rinvenne nella terra delle
strane pietre, che destarono la sua curiosità. Con l’aiuto di Rinaldo
Zardini Folòin, settantenne riconosciuto esperto in materia, scoprì che
si trattava di antichissimi fossili. Tra Rolando Lancedelli e lo
studioso nacque un prezioso sodalizio, stimolando la ricerca di fossili
per Rolando, che tornò tra le amate montagne dolomitiche percorrendo con
grande entusiasmo alte panoramiche vie per cercare e frugare nuovamente
fra terra e sassi, non più metalli ma pietre rare, rarissime, che
raccontano la storia millenaria di quando le Dolomiti erano sommerse da
caldi mari con acque ricche di pesci, animali acquatici e piante,
trasformati nel tempo di mille e mille anni in fossili di invertebrati
marini, megalodonti, lamellibranchi, spugne, echinodermi, bivalvi,
gasteropodi, impronte di vegetali, dicerocardi, coralli e cefalopodi. I
migliori esemplari di fossili, trovati da Rolando, rari e rarissimi,
assieme ad altri reperti che fanno parte della preziosa collezione
scientifica di Rolando Lancedelli, sono esposti nel Museo Paleontologico
“Rinaldo Zardini” ubicato nella “Ciàsa de ra Règoles” di Cortina,
considerato per questo settore, uno dei più importanti al mondo. Un po’
come per gli esami che non finiscono mai, anche le fatiche non
sembravano finire mai per Rolando, che ebbe grande soddisfazione nel
riportare alla luce un megalodonte eccezionale, unico esemplare al
mondo, alto ben 62 centimetri e con un peso di 60 chilogrammi! Ad uno di
questi esemplari il prof. Alassinaz dell’Università di Milano, conferì
il nome di “Dicerocardium Lancedelli” per averlo sapientemente
individuato ed estratto dalle rocce. Anno dopo anno Rolando proseguì le
ricerche di fossili accompagnato dal più fiero dei discendenti, il
primogenito Loris, che dall’età di 6 anni iniziò a seguire, con quel
senso di meraviglia che ogni bambino possiede, le orme esperte del
padre. Le zone di ricerca dei fossili erano le stesse dove trent’anni
prima si recuperavano reperti bellici. Si percorrevano gli stessi
sentieri scrutando con occhio esperto gli strati rocciosi per
intravedere il misterioso fascino, il magico luccichio di qualche
fossile studiando attentamente la natura dell’ambiente e la relativa
incredibile conservazione. Mentre Rolando estraeva fossili scavando
la terra e spaccando rocce, Loris, affascinato dai racconti epici del
padre sulla Grande Guerra e sui suoi recuperi, un po’ per gioco, un po’
per curiosità, iniziò a cercare reperti bellici. Chissà se i suoi occhi
brillarono come quelli del padre quand’era bambino quando un fortunato
giorno trovò una manciata di caricatori, tutti in ottimo stato di
conservazione. Fu la scintilla che accese nel bambino la passione per la
ricerca degli oggetti appartenuti agli uomini che avevano partecipato
alla Grande Guerra. E così, ricerca dopo ricerca, anno dopo anno,
ritrovamento dopo ritrovamento, il materiale recuperato si accumulò a
tal punto da riempire un’intera stanza! Ogni oggetto portato alla luce
racconta una storia, regala un’emozione e fa riflettere sulla vita
dell’uomo che l’ha posseduto. Ogni oggetto raccolto ha, ovviamente,
oltre al primario valore umano, anche un grande valore storico. Col passare degli anni Loris, diventato
adulto, collezionista ed esperto storico, arricchì la raccolta di
famiglia acquisendo migliaia di cartoline e fotografie, commoventi e
spiritose lettere e diari dei soldati, giornali, riviste e molto altro
materiale abitualmente usato dagli uomini impegnati sia sul fronte
italiano che austriaco, oltre che raccogliere interviste dei reduci e
testimoni della Grande Guerra. Nel 1964 11 anni dopo la nascita di
Loris, nacque il secondogenito Graziano. Cresciuto a Fossili e cimeli,
con il trascorrere del tempo si unì alle ricerche anche Lui, passata la
passione dei fossili si aggiunse lo stesso Rolando e la moglie Elena,
anch’essa attiva collaboratrice nel recupero di materiale che già
aiutava il marito portandosi a valle, su spalla, pesanti fardelli. Dolce
e materna, fu lei a trovare lo scheletro di un soldato italiano,
porgendo alle sue giovani spoglie la compassione che solo può sgorgare
dal cuore di una mamma. Graziano Lancedelli, vissuto
immancabilmente in una famiglia di ricercatori di cimeli e fossili, dopo
le iniziali ricerche in montagna si unì al famigliare entusiasmo
dedicandosi al collezionismo ed allo studio dell’oggettistica
dell’epopea della Grande Guerra. Il materiale e i reperti recuperati in
molti anni, alcuni unici e altri assai rari, stimolarono nei componenti
della famiglia, in particolar modo in Loris Lancedelli, che già nel 1970
accarezzava l’idea e il sogno di conservare quanto raccolto in un unico
luogo, ovvero in un Museo della Grande Guerra a Cortina d’Ampezzo. Idea
ammirevole, ma al tempo impresa non facile considerando le ferite
ancora aperte di un passato tanto doloroso. All’inizio dell’idea molte
persone del luogo, in particolar modo i più anziani, erano contrarie
all’iniziativa. Per loro un museo di guerra significava far risaltare
l’occupazione italiana di Cortina, precedentemente rimasta per quattro
secoli territorio dell’Impero Asburgico. Molti ricordavano spesso, con
comprensibile amarezza, gli abusi subiti durante quel periodo e
nell’immediato dopoguerra. Malgrado tutte le difficoltà, Loris
Lancedelli, tenace e fedele al suo ideale intento, approfittò dei molti
personaggi politici che frequentano Cortina in tempo di vacanze, non
mancando di esporre il suo progetto, ottenendo all’inizio non grande
interessamento ed entusiasmo. Nel frattempo il materiale di famiglia
fu esposto in 20 mostre provvisorie riscuotendo, fin dall’apertura, un
gran successo sia di pubblico che d’esperti. La prima esposizione
realizzata nel 1988 esordì registrando ben 53.000 visitatori! Un
risultato incoraggiante, che destò l’interesse sia della popolazione
ampezzana che dell’eterogeneo pubblico nazionale e internazionale che
una vetrina come Cortina può offrire. Un successo che ha finalmente
interessato e posto in movimento sia gli enti locali che i vari singoli
esperti e appassionati. In seguito furono aperti al pubblico i primi
due percorsi storici nella zona delle Cinque Torri e sul monte
Lagazuoi, luoghi storici in cui le prime linee militari originali furono
fedelmente ripristinate e sottoposte a lavori di restauro conservativo. Dopo poco i ripristini dei percorsi
storici, finalmente il 12 agosto 2003 aprì anche il tanto ambito Museo
della Grande Guerra in località “In trà i Sass” sul passo Valparola in
un luogo suggestivo, dall’aspetto lunare, circondato da trincee,
camminamenti e molta storia. Il Museo è ospitato all’interno di un
possente forte Austro Ungarico originale ben ristrutturato, nominato
“Tre Sassi”, che custodisce oggetti unici, ognuno con la sua storia da
raccontare, ognuno importante per il ruolo svolto, fra cui alcune divise
di Curzio Malaparte, scrittore irredentista amico di Gabriele
D’Annunzio (Curzio combatté sul Col di Lana), il voluminoso proiettile
austriaco da 30,5 (il più grande sparato in zona), le scatolette di cibo
dei soldati, le divise militari, le mitragliatrici dei vari eserciti, e
poi ancora fotografie, diari e molto altro materiale da vedere.
All’allestimento di questa prima parte del museo dedicato alla Grande
Guerra s’aggiungono progetti d’ampliamento degli spazi espositivi e
nuovi programmi, tra cui quello d’allestire delle mostre a tema. Un grazie dunque alla famiglia
Lancedelli, che con il suo ammirevole entusiasmo offre l’opportunità di
approfondire la storia locale, ma non solo locale, una storia da
tramandare alle generazioni future a cui possono partecipare anche i
molti turisti e visitatori della valle d’Ampezzo e della val Badia.
Visitare un museo di guerra significa prender atto che in quella data
regione la guerra è veramente esistita, con tutta la sua crudeltà.
Nell’osservare un oggetto bellico, sia un caricatore o la gavetta
ammaccata di un soldato, fa pensare, almeno per un attimo, a quanti
floridi uomini furono costretti a lasciare i propri affetti, i sogni e
le speranze proprio quando la loro giovane vita s’affacciava sul mondo,
sulla società. Giovani poco più che adolescenti, padri di famiglia,
costretti a lasciare la propria casa e la propria terra senza poter far
altro, in molti, troppi casi, che non tornare mai più. Quanti non sono
tornati indietro dal terribile teatro della Grande Guerra, interpretato
in uno degli scenari più belli al mondo? E quante madri, mogli e figli
li hanno pianti? Anche questa storia è tra quelle contraddittorie della
vita, tanto orripilante la guerra quanto splendido il paesaggio.
Assurdo!
Fonte:
http://www.cortinamuseoguerra.it/index.php?option=com_content&view=article&id=113&Itemid=27&lang=it
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