Foto collezione privata del Dott. Mauro Quattrina
Il pomeriggio del 2 Dicembre, un aereo da ricognizione della Luftwaffe, sorvola il cielo di Bari. Il suo compito è quello di fotografare il più possibile: area urbana, porto e aeroporto. All’esperto pilota tedesco, non sfugge il molo di “Levante” pieno di navi all’ancora. L’Autorità portuale è gestita dal Comando Inglese, che ritiene assurdo un attacco della Luftwaffe. Cadono in un Titanico e drammatico errore di valutazione. Infatti alle ore 19:25 provenienti dai Balcani 105 bombardieri sono sulla città.
Cominciano a piovere, le famose annunciatrici
della morte alata, (milioni di striscioline in stagnola, utili a
confondere i sistemi radar ). I fari contraerei del porto, sono già in
funzione, subito imitati da quelli dell’aeroporto. La città è quasi
incantata, la scenografia è d’autore: il buio della sera è squarciato da
una serie di fasci luminosi, che a contatto delle striscioline di
stagnola, creano giochi di variopinti colori. Come sottofondo, il cupo
rombo dei bombardieri tedeschi, che sganciano le prime bombe sull’area
urbana, ma l’obbiettivo sono le 36 navi ancorate. La contraerea è
presente e penetra il cielo con i suoi 37mm traccianti. Questi
proiettili, sviluppano (Grazie ad una carica di Magnesio inserita in un
artifizio sistemato nel codolo della granata) un lungo e colorato
percorso. Il cielo è intrinseco di ogni colore. Sul porto precipitano
le prime bombe, alcune centrano le navi, altre cadono in mare.
Sulle navi colpite cominciano a svilupparsi
numerosi incendi che producono enormi colonne di fumo. Ma a sostegno
della popolazione interviene un imprevisto e determinante alleato. Il
vento, all’improvviso cambia direzione e, spinge verso mare, ma non
basta, i rioni adiacenti al porto, sono già invasi dai fumi. Ora il
bombardamento diventa intenso, i boati delle esplosioni si susseguono a
una velocità inverosimile. Alcune navi bersaglio sono già inclinate su
di un fianco. Il Mare a causa della nafta e di altri combustibili è in
fiamme e, questo provoca una visione quasi dantesca. In acqua ci sono
le zattere dei numerosi equipaggi che dribblano la morte e cercano la
vita. Il vento Aumenta d’intensità e, costringe i vapori ad
allontanarsi dal centro abitato.
Nelle acque del porto numerosi marinai sono inghiottiti da vortici infuocati. Alcune navi cariche di ordigni esplodono insieme all’equipaggio. Aumentando di fatto, la drammaticità del momento. I fari sono ancora in funzione, la contraerea balbetta le sue granate antivelivolo e, continua a colorare a suo modo il cielo di Bari. Ma le bombe continuano a piovere e con esse la morte di tanti militari e civili. La città vive momenti di un puro sgomento, I baresi capiscono ciò che sta accadendo, ma hanno terrore di quello che sarà. Sono le 19:50, le bombe, precipitano ancora. Una nave esplode, nelle sue stive sono stipate 2000 bombe all’Azoiprite. Molte di queste sono proiettate in alto e, causa l’enorme temperatura, scoppiano lasciando scivolare il potente aggressivo chimico, nelle acque del porto. Nel frattempo, le bombe non scoppiate si sparpagliano nei fondali del porto e, sono tante. L’Azoiprite ormai è mischiata alla nafta incendiata e, il fumo che produce diventa un potentissimo veleno. Bari e, la sua popolazione ringraziano il vento che ha risparmiato alla città una storia più agghiacciante. Le vittime accertate fra militari e civili sono più di 2000. I feriti militari sono soccorsi al Policlinico, gestito dal Comando Neozelandese e, vengono curati in modo superficiale. Anche perché i medici ignorano del tutto il problema Yprite. Tanto che a numerosi marinai è diagnosticata “congiuntivite”. Per i civili non c’è spazio neanche per questi errori e, li lasciano al loro nero destino.
Nelle acque del porto numerosi marinai sono inghiottiti da vortici infuocati. Alcune navi cariche di ordigni esplodono insieme all’equipaggio. Aumentando di fatto, la drammaticità del momento. I fari sono ancora in funzione, la contraerea balbetta le sue granate antivelivolo e, continua a colorare a suo modo il cielo di Bari. Ma le bombe continuano a piovere e con esse la morte di tanti militari e civili. La città vive momenti di un puro sgomento, I baresi capiscono ciò che sta accadendo, ma hanno terrore di quello che sarà. Sono le 19:50, le bombe, precipitano ancora. Una nave esplode, nelle sue stive sono stipate 2000 bombe all’Azoiprite. Molte di queste sono proiettate in alto e, causa l’enorme temperatura, scoppiano lasciando scivolare il potente aggressivo chimico, nelle acque del porto. Nel frattempo, le bombe non scoppiate si sparpagliano nei fondali del porto e, sono tante. L’Azoiprite ormai è mischiata alla nafta incendiata e, il fumo che produce diventa un potentissimo veleno. Bari e, la sua popolazione ringraziano il vento che ha risparmiato alla città una storia più agghiacciante. Le vittime accertate fra militari e civili sono più di 2000. I feriti militari sono soccorsi al Policlinico, gestito dal Comando Neozelandese e, vengono curati in modo superficiale. Anche perché i medici ignorano del tutto il problema Yprite. Tanto che a numerosi marinai è diagnosticata “congiuntivite”. Per i civili non c’è spazio neanche per questi errori e, li lasciano al loro nero destino.
Giovanni Lafirenze
Bonifica del litorale pugliese in località Torre Gavetone - Pagina presente sul sito della Marina Militare
Video intervista del 04/10/2004
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Il bombardamento del porto di Bari diventa documentario
Il trailer del documentario
Enzo Varricchio
pubblicato su Realtà Forense, dicembre 2006
pubblicato su Realtà Forense, dicembre 2006
Bombardamento di Bari del 1943: dopo la medaglia il mistero resta
Nel 1996 l’unica inchiesta sulle bombe all’iprite, voluta dal giudice Bassi
La città di Bari ha visto riconosciuto dal Presidente della
Repubblica l’eroico sacrificio dei suoi cittadini durante gli eventi
del 1943. Giustizia è fatta alla memoria. Tuttavia, molti aspetti di
quel tragico 2 dicembre, per tanto tempo rimasto ignoto ai libri di
storia e ora tornato alla ribalta, restano oscuri.Mille vittime militari e non meno di 200 vittime civili, sedici navi angloamericane affondate e un ponderoso carico di ordigni colato a picco, non sono stati motivo sufficiente a fare luce su questo misterioso episodio.
Un testimone oculare, il maggiore Glenn Infield, nel saggio pubblicato a New York nel 1971 dal titolo “Disaster at Bari”” lo definì “il più grave episodio di guerra chimica nel secondo conflitto mondiale”.
Per oltre mezzo secolo, “sull’intera vicenda le autorità militari e politiche imposero una censura così radicale, che non soltanto la presenza dell’iprite, ma lo stesso bombardamento tedesco fu cancellato dalla storia” (sono parole di G. Rochat, noto storico militare).
Ancor oggi permangono inquietanti interrogativi cui andrebbe data risposta dopo la concessione dell’onorificenza alla città.
Alcune verità sono ormai emerse nell’ultimo decennio, grazie allo strenuo sforzo dei ricercatori:
i tedeschi, grazie all’attività di spionaggio, vennero informati della presenza delle navi nel porto barese ma, soprattutto della natura del loro carico;
le navi angloamericane, tra le quali la portaerei John Harvey, trasportavano un ingente quantitativo di armi non convenzionali, tra le quali ovuli di iprite, il micidiale gas dall’odore di mostarda, vietato dalle convenzioni internazionali a causa degli effetti devastanti sull’uomo e sull’ambiente;
grazie ad un escamotage, gli aerei tedeschi riuscirono a confondere le postazioni radar e a sferrare l’attacco;
l’attacco fu caratterizzato da una precisione millimetrica: quasi tutte le navi furono affondate con il rispettivo carico di bombe;
Le bombe inesplose furono smaltite in mare per volontà degli americani, con pericoli incalcolabili a tutt’oggi presenti;
un numero imprecisato di baresi fu contaminato dalle esplosioni e riportò in seguito gravi danni;
da quel momento la censura militare, preoccupata delle ripercussioni sull’opinione pubblica, oppose il suo veto alla diffusione di notizie sull’accaduto;
nel primo e secondo dopoguerra numerose persone continuarono a manifestare i postumi di quella contaminazione, come registrato dall’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Bari;
si sono verificati casi di ripescaggio di ordigni da parte dei pescatori, con conseguenze nefaste.
Nel 1994 un ricercatore barese, Angelo Neve, durante una puntata del programma televisivo Combat Film, rivelò che gli ordigni all’iprite erano ancora sui fondali, paventando il deterioramento dei loro contenitori, con effetti devastanti per la salubrità della costa.
Nel 1996, l’allora procuratore aggiunto della Repubblica, Angelo Bassi, aprì un’inchiesta che è rimasta l’unica al riguardo, nonostante le interrogazioni parlamentari che seguirono. Grazie al suo lavoro e alle operazioni condotte dai reparti specializzati delle Forze Armate italiane, si intraprese un’operazione di bonifica del litorale tra Molfetta, Bari e Polignano (vi furono altri affondamenti lungo tutta la costa!), per la cui realizzazione furono stanziati 500 milioni delle vecchie lire, cifra davvero esigua rispetto a quella necessaria per la soluzione definitiva del problema.
Moltissime bombe furono ritrovate e disinnescate e il magistrato riuscì a addirittura a dimostrare che le stive delle navi affondate durante la guerra venivano ancora utilizzate come santabarbare dalla criminalità organizzata.
La Gazzetta del Mezzogiorno del 23 febbraio del 1996 intitolava cubitalmente: “L’ultimo SOS contro l’avanzata criminale viene dal Procuratore Bassi – Misteri e segreti in fondo al mare – Forse la malavita utilizza armi belliche”.
Dopo la prematura scomparsa di Angelo Bassi nel 1998, la questione è finita nel dimenticatoio ma pescatori, sommozzatori e studiosi sono pronti a giurare che le bombe all’iprite ci sono ancora.
Sarebbe, quindi, doveroso da parte del Governo, in occasione del riconoscimento tributato ai cittadini baresi, chiarire questo evento della storia nascosta, risarcendo la città del danno ambientale ed umano subito, le vittime civili o i loro eredi per le sofferenze patite, nonché organizzando una campagna di bonifica che sia risolutiva.
Bari, 19 settembre 2006
Enzo Varricchio
Enzo Varricchio
Bombardamento - Bari
2 dicembre 1943
Sui libri di scuola questa data non figura, per la
città di Bari fu una giornata indimenticabile ed uno dei più tragici e
misteriosi eventi della seconda guerra mondiale (la maggior perdita
navale delle forze alleate dopo Pearl Harbour). I radar posti a tutela
della città non funzionarono, forse a causa di una semplice astuzia
tedesca, lanciare dei pezzetti di carta stagnola per occultarne i
sensori elettronici. Sta di fatto che 105 bombardieri Junkers della
Luftwaffe, giunti indisturbati, flagellarono per venti minuti il porto
ove erano ferme trenta navi da guerra angloamericane che,
ufficialmente, trasportavano viveri ed armi convenzionali. Diciassette
le navi affondate, 8 semidistrutte, altre danneggiate. Mille i militari
morti in una operazione “chirurgica” che uccise cento baresi e
danneggiò solo due palazzi. Seicentodiciassette vittime risultarono
“contaminate” e i medici notarono strane ustioni sul corpo dei feriti
che venivano curati come ustionati e morivano dopo poche ore, mentre un
fumo nerissimo continuò a fuoriuscire per giorni dai relitti. Sulla
vicenda calò l’oblio del top secret internazionale. In realtà, le navi
trasportavano iprite, gas micidiale, vietato dalla Convenzione di
Ginevra del 1925 ma utilizzato (clandestinamente) da quasi tutti gli
eserciti, durante sia la prima che la seconda grande guerra. I
tedeschi, evidentemente, sapevano bene cosa colpire e gli alleati
tennero il più stretto riserbo sull’evento, onde evitare che simili
barbarie inquinassero il loro mito “buonista” (v. gli studi condotti
dall’ufficiale americano John Infield). Anche la memoria storica dei
baresi fu confusa artatamente, deviando l’attenzione su successivi
episodi di affondamento. Peraltro, gli americani, all’indomani del
bombardamento, portarono fuori dal porto alcune navi e le affondarono,
lasciando sui fondali molti pericolosi ordigni, individuati tra il 1995
ed il 1996 da un gruppo di studiosi (Angelo Neve, Giorgio Assennato, ai
cui lavori si rinvia) e da un’indagine condotta dalla Procura della
Repubblica di Bari.
Alfredo Castelli ne “Il segreto di S. Nicola” (Ed. Bonelli, 1995) sostiene che il bombordamento servì a coprire una ben più importante operazione teutonica, il trafugamento del Santo Graal (la sacra Coppa nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo) dalla Basilica nicolaiana ov’era custodito (vedi voce “S. Nicola”). Il tentativo di furto sarebbe fallito ed il Graal si troverebbe ancora a Bari.
Alfredo Castelli ne “Il segreto di S. Nicola” (Ed. Bonelli, 1995) sostiene che il bombordamento servì a coprire una ben più importante operazione teutonica, il trafugamento del Santo Graal (la sacra Coppa nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo) dalla Basilica nicolaiana ov’era custodito (vedi voce “S. Nicola”). Il tentativo di furto sarebbe fallito ed il Graal si troverebbe ancora a Bari.
Bibl.: Enzo Varricchio, “Nicola e il suo doppio”, ed. dal Sud, 1996.
2/12/'43, a Bari la Pearl Harbour europea
63 anni fa le truppe tedesche della LuftWaffe bombardarono il porto della città
Michele Emiliano durante il seminario dedicato alla strage del 2 dicembre 1943
di Antonio Scotti
02 dicembre 2006 - Sono passati 63 anni da quando l’aviazione
tedesca della Luftwaffe bombardò il porto di Bari. Più di 1200 i morti
tra militari e civili. Tra le diciassette navi distrutte (stesso numero
di Pearl Harbour) figurava anche la John Harvey contenente un carico di
iprite, sostanza chimica altamente nociva.Un anno disgraziato se soltanto si pensa che tre mesi prima le truppe tedesche cercarono di occupare la città e che i cittadini del borgo antico si improvvisarono militari pur di resistere all’invasione delle truppe hilteriane. Per anni il sacrificio dei baresi è stato rimosso dalle memoria storica della nazione. E solo tre mesi fa l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto la medaglia d’oro al valore civile a Bari per i suoi numerosi atti di resistenza: l’eccidio di venti manifestanti durante la strage del 28 luglio in via Nicola Dell’Arca (sempre nel ’43); la battaglia del 9 settembre ed infine il bombardamento del porto del 2 dicembre. L'attacco della Luftwaffe fu uno dei più nefasti dell'intera guerra. L’iprite non solo inquinò il mare, ma mise in ginocchio la vita di tutti i giorni dei baresi. Talmente disastroso che il generale americano Eisenhower avrebbe poi scritto nelle sue memorie: "Subimmo la più grave perdita inflittaci da attacco aereo dell'intera campagna del Mediterraneo e in Europa" . Proprio sulle conseguenze di quell’attacco, ieri, è stato organizzato dall’Ipsaic (Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea) un seminario cui sono intervenuti il sindaco Michele Emiliano, il Rettore Corrado Petrocelli, Giorgio Assennato (docente di medicina interna) ed altri studiosi pugliesi dell'ateneo barese.
L'iprite era stata messa al bando dalla convenzione di Ginevra fin dal 1925. Ma gli americani non rinunciarono alla possibilità di dotarsi di questa sostanza durante la seconda guerra mondiale. Il suo nome deriva dalla cittadina belga di Ypres, dove venne impiegato per la prima volta dagli Imperi Centrali nella Grande Guerra. Disgrazia ha voluto che la John Harvey fosse stata ormeggiata dalla marina americana nel porto di Bari.L'obiettivo era quello di scaricare le bombe nel corso della mattinata successiva.
Una volta colpita, la John Harvey esplose in pochi minuti con tutto il suo carico e tutti gli uomini che fin da subito cercarono di domare le fiamme. Un gas tossico e vescicante dal caratteristico odore di senape putrida si diffuse per tutta la zona vicina al porto. Chi decise di buttarsi in mare per raccogliere i naufraghi, entrò subito in contatto con la sostanza velenosa. Questa contagiò i polmoni e molti persero la vita dopo nemmeno un mese dall’accaduto.
Dei 617 intossicati da iprite, 84 morirono a Bari. Sulle ascelle e i genitali l’iprite provocò il distacco della pelle. Molti furono curati con i sulfamidici, ma in pochi casi la cura produsse buoni effetti.
Ciò che certo è che la bonifica dall’iprite fu svolta dai marinai, pescatori e dal personale portuale di Bari. “Persone sconosciute, ma a cui Bari dovrà essere sempre riconoscente per quanto hanno fatto per la città – ha ricordato il sindaco Michele Emiliano - Con loro il porto ha presto ripreso ad esercitare la sua attività commerciale che all’epoca, come oggi, rappresentava un fonte economica vitale per Bari”.
Sebbene i disastri dell’iprite si protrassero nel tempo sacrificando la vita di molte persone, gli studi epidemiologici dell’epoca hanno rappresentato una fonte preziosa per le successive ricerche mediche. “Tutte le riviste mondiali del settore - ha ricordato Assennato- riconoscono che dal monitoraggio delle conseguenze dell’iprite, a Bari si è potuto intraprendere un percorso importante per gli studi epidemiologici. Questi hanno portato alla chemioterapia per la cura dei tumori”.
Molte abitazioni crollarono a causa dello scoppio della Harvey. Una di questa ha lasciato una traccia a fianco della sagrestia della Cattedrale. Mentre nella città nuova crollarono tre edifici tra via Andrea e Roberto da Bari. San Nicola, narranno i pochi sopravissuti, protesse la città scongiurando che l’intera nube provocata dall’esplosione delle bombe potesse diffondersi in maniera completa all’interno del borgo antico. Buona parte della nube, infatti, si spostò verso il mare e la città da 63 anni ricorda il suo patrono con devozione.
Oggi al porto ci sarà la deposizione di una corona sulla lapide che ricorda le vittime di quella strage. Nella sala del consiglio comunale, seguirà una riflessione sul conferimento della medaglia d'oro al valore civile alla città di Bari, a ricordo delle vittime baresi dal 28 luglio 1943 al 9 aprile 1945.
2 dicembre 1943: il disastro di Bari
Brucia ancora quel ricordo. Dopo sessant’anni
tornano alla memoria i fragori delle bombe che sentivo
cadere, immobilizzato dalla paura nel rifugio antiaereo.
Ero entrato in seminario a Bari a settembre del 1943. Il 2
dicembre aerei tedeschi della Luftwaffe piombarono sulla
città e fu morte e distruzione. Un disastro epocale.
Stavamo ancora studiando al terzo piano del seminario, nella
camerata San Sabino, mancava poco alla cena, una mezz’oretta
alle otto di sera. La serata era tiepida. Ammiravo il profilo dei
tetti della vecchia Bari e la sagoma tozza della
Cattedrale sotto il cielo stellato. Rombi cupi di aerei a
bassa quota per qualche minuto ruppero il silenzio fra le
lame dei riflettori antiaerei che scrutavano il cielo in
difesa della città. L’ombra di un aereo sfrecciò veloce
dinanzi ai nostri occhi, volava radente sulla città.
Cominciò così uno dei bombardamenti più disastrosi che Bari subì durante la guerra. I muri del seminario tremavano, scappammo precipitosamente nel rifugio antiaereo, più di cento persone fra seminaristi e sacerdoti. Potevamo appena stare seduti sui tufi o per terra. Con noi c’era l’Arcivescovo Marcello Mimmi. Si pregava sotto le volte del rifugio scosse dalla violenza delle bombe che gli aerei tedeschi sganciavano sulla città. Un boato fu più forte degli altri, una bomba era caduta proprio a poche decine di metri dal nostro rifugio, a fianco della cattedrale, in via La Trulla seppellendo sotto le macerie intere famiglie. Un massacro. Il terrore paralizzò le nostre vene nel pianto corale che si mescolava al fragore delle bombe. I sacerdoti e l’Arcivescovo cercavano di infonderci coraggio. Durò quasi dieci ore la nostra paura sotto le volte malsicure del rifugio. Nella notte, quando già i cacciabombardieri tedeschi avevano da molte ore terminato l’opera di martellamento della città, boati terribili continuarono a squarciare le viscere della terra a breve intermittenza l’una dall’altra. Il porto di Bari bruciava. Le bombe dei cacciabombardieri tedeschi avevano colpito molte navi americane, anche le petroliere erano state colpite rovesciando sulle acque del porto fiumi di nafta e benzina. In quell’inferno di fiamme anche le altre navi presero fuoco, saltavano in aria fra terribili deflagrazioni vomitando morte e distruzione. Il seminario distava poche centinaia di metri dal porto. La cronaca poi raccontò che quella notte nel porto c’erano 21 navi da guerra alleate, 17 ne furono colpite e affondate. Nel cuore della notte solo l’Arcivescovo Mimmi e alcuni sacerdoti abbandonarono il rifugio per portare conforto nella città terrorizzata, colpita a morte dagli aerei tedeschi. Il rettore del seminario don Angelo Cavalla ci fece uscire dal rifugio solo dopo l’alba, appena il tempo di prendere cappelli e zimarre e subito fuori, ognuno per sé. Il seminario era semidistrutto, le camerate erano un ammasso di rovine. La mole massiccia e resistente della cattedrale aveva attutito l’urto della bomba caduta a poca distanza dal nostro rifugio in via La Trulla. Furono queste le prime macerie che vedemmo, pregammo per le 34 vittime di quella bomba. Sotto i nostri occhi i soccorritori stavano estraendo dalle macerie le prime vittime. Da quel momento cominciò il mio peregrinare solitario per le vie della città. Dovevo raggiungere a piedi la stazione ferroviaria della Sud Est lontana un paio di chilometri in fondo all’estremurale Capruzzi. Attraversai la città sconvolta dalle bombe e inasprita da aria acida. Squadre di militari e di volontari rimuovevano macerie e disseppellivano cadaveri e gente ferita. Corpi senza vita e lacerati venivano allineati sui marciapiedi in attesa di essere portati via, e tanto dolore e grida straziate dei sopravvissuti e dei familiari. Furono 186 i morti fra i civili, la maggior parte in via Crisanzio e via Nicolai, altri in via Abate Gimma e via Piccinni. La città aveva cambiato volto, vetri frantumati, calcinacci e rovine dappertutto, alberi sradicati, facce abbrutite dalla notte di terrore. I tedeschi avevano vomitato bombe e morte in una trentina di minuti sulla città che neppure si era accorta dell’arrivo degli aerei nemici. Erano arrivati a bassa quota eludendo la sorveglianza antiaerea dei radar, dei fari e dei palloni aerostatici che costellavano il cielo di Bari. I baresi andavo scoprendo, in quelle ore, che il disastro era immane. Nel porto bruciavano ancora le navi americane, si contavano i morti, più di un migliaio fra alleati e italiani. E poi la scoperta, negli anni a venire: una delle navi colpite, la John Harvey, era carica di aggressivi chimici, l’iprite, un gas altamente pericoloso, cancerogeno che doveva essere utilizzato per la guerra chimica. Quel gas aveva ucciso una folla di soldati e marinai ustionati, le autorità militari alleate nascosero la verità per i decenni a venire. Peregrinai per la città per tutto il tempo necessario a raggiungere la stazione ferroviaria della Sud Est fra gente frastornata che abbandonava Bari verso paesi e città più sicure. Il treno lunghissimo di vagoni-bestiame era già stracolmo. Qualcuno mi disse che mia madre, con una mia zia, accorsa a Bari in mattinata, andava chiedendo di me. Sapeva che ero salvo. A Sammichele già dalla notte si era sparsa la voce che alcune bombe erano cadute nelle vicinanze della cattedrale, notizia solo in parte vera. L’incontro con mamma e zia Lucia fu un muto abbraccio di lacrime nella folla che dava l’assalto agli ultimi spazi sui vagoni. Era tempo di tornare a casa. Il treno si mosse lentamente, fermandosi in tutte le stazioni per rovesciare il suo carico di disperati. Era pomeriggio quando ci fermammo alla stazione di Sammichele. Viale della Rimembranza era affollato. A migliaia ci erano venuti incontro, tutti cercavano i loro familiari, un figlio, un padre, un parente, un amico, scampati a quella notte di morte. Intravidi mio padre, lo accompagnavano mio fratello Ninuccio, mio zio Stefano, Filippo Cicoria e Virgilio Marinelli. Papà mi guardava, sembrava non riconoscermi, era distrutto dal dolore, non poteva ancora sapere se il suo figliolo Mincuccio era fra gli scampati. Lo abbracciai muto, muto restò papà per alcuni minuti, poi il pianto liberatorio. Per molte ore, da quando in paese si udirono i primi fragori delle bombe che cadevano su Bari, fino alla tarda mattinata ebbe la sola e unica certezza che sotto quel bombardamento c’era anche suo figlio e che le bombe potevano averlo sepolto sotto le macerie del seminario. Quelle lunghe ore di angosciosa attesa lo avevano distrutto. Lungo le strade verso casa la gente stipava finestre balconi marciapiedi per riconoscerci, Ciccillo Sportelli e Sabella, la moglie, don Vitangelo affacciato al balcone con le sue numerose figliole, Vituccio del “sale” sull’uscio della sua bottega in piazza, Carmela la “pepìdde” sulla scala d’ingresso alla sua abitazione, gli operai del molino di “magghe magghe” accorsi sulla strada, tutti avevano gli occhi lucidi di emozione e di pianto. Una folla di donne, le vicine di casa, assiepava la strada della mia abitazione, mi accolsero con abbracci e pianti, comare Teresa “la bizzòca”, Anna Cafaro e don Vito “paparèlla”, Vitina la “cantòna”, Lucia “la jammòna”, Angelina la “ghiasciòna”, comare Domenichella e la figlia Nennella, “la sardagnòla”, Peppino “prechìcche”, i “’mbatùse”, i “saracìste”. Ero tornato vivo, in quelle ore apparivo un eroe reduce dal disastro di Bari. La casa si riempì di gente, parenti e amici vennero ad abbracciarmi, solo allora cominciai a rendermi conto che la sorte - o la divina provvidenza? - mi aveva protetto. Per molti anni continuai ad aver paura, una paura incontenibile soprattutto col calar della sera. |
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Domenico Notarangelo
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La tragedia della famiglia De Bellis
Collezione Angelillo - Donvito
L’aspetto più drammatico delle guerre del Novecento è
stato il progressivo coinvolgimento della popolazione civile nelle
vicende belliche, con conseguente aumento del numero complessivo delle
vittime. Se infatti, ancora negli anni delle guerre napoleoniche,
poteva accadere che la belligeranza non coinvolgesse direttamente la
vita dei cittadini non coscritti o non arruolati, dalla Grande Guerra
in poi ciò è diventato pressoché impossibile, cosicché, come
giustamente fa notare E. Hobsbawn, un romanziere che avesse voluto
ambientare la sua trama in una qualsiasi città europea degli anni
1914-18, non avrebbe in alcun modo potuto ignorare lo svolgersi del
conflitto (Cfr. IL SECOLO BREVE, Arti Grafiche, Bergamo, 1997, pag.
60). E infatti, nel passare in rassegna i nomi dei morti delle guerre
mondiali, si riscontra purtroppo un gran numero di civili, vittime dei
bombardamenti, delle carestie ma anche degli stupri e dei turpi piani
di pulizia etnica.
Fra costoro va annoverata anche una sfortunata famiglia gioiese, i De Bellis, periti nell’incursione aerea compiuta dall’aviazione germanica su Bari la sera del 2 dicembre 1943, episodio non noto ai più anche se di notevole importanza. Il quadro storico in cui si colloca è assai complesso. Sono i mesi successivi all’armistizio, dichiarato ufficialmente nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943 dal capo del governo, Maresciallo Badoglio. L’Italia era divisa in due: una gran parte del Mezzogiorno era libera, mentre il resto del Paese si trovava sotto il controllo della Germania e della Repubblica di Salò. Bari ricadeva nell’area conquistata dagli alleati e godeva quindi di una relativa libertà: difatti qui si svolse poco meno di due mesi dopo, precisamente il 28 e 29 gennaio 1944, il primo congresso del Comitato di Liberazione Nazionale, ove si prese la decisione di indire un referendum, una volta cessate le ostilità, per stabilire il futuro assetto istituzionale dello Stato; qui rinacquero la stampa e la radio libere; qui si compirono, insomma, alcuni dei passi decisivi verso la formazione della Repubblica italiana. Ma qui vi era pure un porto di discreta rilevanza strategica, ove in quei mesi erano attraccate numerose navi alleate, delle quali almeno una, la “John Harvey”, disponeva di un ingente quantitativo di iprite, un gas tossico adoperato dai tedeschi già nel corso della prima guerra mondiale, nella città francese di Ypres (da cui il nome). Fu proprio questa unità il bersaglio principale dell’operazione militare, i cui effetti furono disastrosi: come riferì un testimone diretto, il marinaio Zanchi, “il deposito della nave [la Harvey] saltò in aria; […] quella fu una notte apocalittica per tutta la città di Bari. Lo specchio di mare del porto e dell’avanporto fu letteralmente invaso dalle fiamme. […] Molte vittime furono lamentate anche tra la popolazione civile, proprio a causa dei gas sprigionati” (questa e altre testimonianze sono riportate sul sito www.prevato.it). Difatti la micidiale miscela gassosa che ne scaturì invase dapprima la città vecchia, poi il territorio circostante, provocando numerosi decessi che si aggiunsero a quelli causati direttamente dal bombardamento: alla fine si contarono circa 1.500 vittime. Per quanto riguarda il naviglio, le navi statunitensi affondate furono 17, 8 quelle seriamente danneggiate, ma anche alcune unità navali italiane furono messe fuori uso, tra cui la celebre motonave “Barletta”. Le possibilità operative del porto risultarono, inoltre, pesantemente compromesse per almeno tre settimane (Ibidem). Per gli alleati le perdite si rivelarono dunque assai gravi, inferiori solo a quelle patite durante l’attacco a Pearl Harbor, ma se si considerano gli effetti, anche sul lungo periodo, dell’invasione della nube tossica in città, l’episodio assume una gravità ancora maggiore, tanto da far guadagnare al capoluogo pugliese il triste primato di maggior teatro di guerra chimica del secondo conflitto mondiale. Ciononostante, il governo di Washington non volle ammetterne la reale portata, anche perché – così si disse – non intenzionato a rivelare il possibile imminente impiego di potenti armi chimiche sul suolo italiano (sull’argomento cfr. anche D. Notarangelo, 2 DICEMBRE 1943, IL DISASTRO AEREO SU BARI, La Piazza, Sammichele, n. 1 del 2004).
Tra i civili caduti, come si è detto, anche i componenti di una famiglia originaria di Gioia: la signora Nietta De Bellis, di anni 43, e i figli Lia, di anni 18, Angelo, di anni 15, Stellina, di anni 5, e Gennarino di anni 4, che attualmente riposano nel piano interrato del cimitero monumentale di Gioia: i loro loculi difficilmente passano inosservati, in quanto disposti in maniera particolare, a mo’ di croce, completata dall’urna dell’unico scampato alla tragedia, il padre Vito, morto nel 1978.
Ma il numero dei civili gioiesi periti durante il conflitto avrebbe potuto essere ben più pesante se, la notte tra il 25 e il 26 giugno dello stesso anno, gli aerei anglo-americani avessero bombardato Gioia e non Sannicandro, come invece avvenne. Il penoso bilancio finale ammontò a 87 vittime, una vera catastrofe per una cittadina che fino a quel momento, come racconta V.U. Celiberti, aveva conosciuto la guerra solo in modo indiretto, essendo rimasta “ai margini della storia” (Cit. DA MONTE SANNACE A GIOIA – STORIA DI DUE CITTA’, Editrice Tipografica, 2002, pag. 363). A lungo si è ritenuto che il vero obiettivo dell’attacco fosse l’aeroporto di Gioia, non individuato dai bombardieri forse perché coperto, quella sera, dalla nebbia. Dello stesso avviso furono i cittadini gioiesi, i quali sentirono tanto il rumore degli aerei quanto il suono della sirena che annunciava il bombardamento, ma quando poi uscirono dal rifugio e videro le loro case intatte pensarono ad un miracolo, oppure ad un tragico anche se propizio, almeno per loro, “scambio di campanile”. Tuttavia più di recente questa ipotesi è stata scartata poiché si ritiene che l’aerostazione potesse servire agli alleati, che proprio in quelle settimane stavano conquistando le estreme propaggini meridionali della penisola, sia per i rifornimenti logistici sia per le partenze dei bombardieri. Più verosimile sembra l’ipotesi che l’errore si sia verificato, ma che a beneficiarne sia stata Santeramo, sede di una polveriera, e non Gioia (Ivi, pag. 373).
Oltre a quanto detto in precedenza, va aggiunto che altresì nel nostro comune e in tutta la provincia non mancarono scontri, anche piuttosto cruenti, tra le truppe tedesche e le improvvisate ma valide formazioni partigiane locali, nei giorni immediatamente successivi all’armistizio: l’episodio più drammatico in proposito fu la fucilazione di undici guardie municipali e due netturbini a Barletta il 12 settembre 1943.
I drammi non terminarono, purtroppo, dopo il dicembre del ’43, ma il pesante e ingiusto sacrificio della famiglia De Bellis resta unico nella sua inconsueta gravità, e rappresenta una sorta di versione civile di “salvate il soldato Ryan”, anche se in questo caso nessun generale magnanimo avrebbe potuto ritirare il solo superstite di quella famiglia dal fronte, perché il teatro della guerra per ogni cittadino non era più solo la trincea, come era accaduto in genere in passato, ma la propria città, la propria strada, la propria casa.
Questa tremenda trasformazione derivava principalmente dall’impiego dell’aviazione come mezzo di guerra, un mezzo che se poteva contribuire a limitare le perdite fra le forze di chi attaccava, aumentava inevitabilmente quelle di chi subiva. Eppure, a dispetto di questa ovvia considerazione, negli ultimi anni qualcuno ha coniato la paradossale espressione di “bombardamento umanitario”, contro la quale sembrano calzanti le parole pronunciate dallo stratega Townshend nel 1921: “in considerazione delle accuse di barbarie rivolte agli attacchi aerei sarebbe opportuno pensare a salvare le apparenze, formulando regole più blande e limitandoli, formalmente, agli obiettivi di carattere strettamente militare […], per evitare di porre in luce la verità che la guerra aerea ha reso obsolete e impossibili siffatte restrizioni” (rip. in E. Hobsbawn, OP. CIT., pag. 33).
Fra costoro va annoverata anche una sfortunata famiglia gioiese, i De Bellis, periti nell’incursione aerea compiuta dall’aviazione germanica su Bari la sera del 2 dicembre 1943, episodio non noto ai più anche se di notevole importanza. Il quadro storico in cui si colloca è assai complesso. Sono i mesi successivi all’armistizio, dichiarato ufficialmente nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943 dal capo del governo, Maresciallo Badoglio. L’Italia era divisa in due: una gran parte del Mezzogiorno era libera, mentre il resto del Paese si trovava sotto il controllo della Germania e della Repubblica di Salò. Bari ricadeva nell’area conquistata dagli alleati e godeva quindi di una relativa libertà: difatti qui si svolse poco meno di due mesi dopo, precisamente il 28 e 29 gennaio 1944, il primo congresso del Comitato di Liberazione Nazionale, ove si prese la decisione di indire un referendum, una volta cessate le ostilità, per stabilire il futuro assetto istituzionale dello Stato; qui rinacquero la stampa e la radio libere; qui si compirono, insomma, alcuni dei passi decisivi verso la formazione della Repubblica italiana. Ma qui vi era pure un porto di discreta rilevanza strategica, ove in quei mesi erano attraccate numerose navi alleate, delle quali almeno una, la “John Harvey”, disponeva di un ingente quantitativo di iprite, un gas tossico adoperato dai tedeschi già nel corso della prima guerra mondiale, nella città francese di Ypres (da cui il nome). Fu proprio questa unità il bersaglio principale dell’operazione militare, i cui effetti furono disastrosi: come riferì un testimone diretto, il marinaio Zanchi, “il deposito della nave [la Harvey] saltò in aria; […] quella fu una notte apocalittica per tutta la città di Bari. Lo specchio di mare del porto e dell’avanporto fu letteralmente invaso dalle fiamme. […] Molte vittime furono lamentate anche tra la popolazione civile, proprio a causa dei gas sprigionati” (questa e altre testimonianze sono riportate sul sito www.prevato.it). Difatti la micidiale miscela gassosa che ne scaturì invase dapprima la città vecchia, poi il territorio circostante, provocando numerosi decessi che si aggiunsero a quelli causati direttamente dal bombardamento: alla fine si contarono circa 1.500 vittime. Per quanto riguarda il naviglio, le navi statunitensi affondate furono 17, 8 quelle seriamente danneggiate, ma anche alcune unità navali italiane furono messe fuori uso, tra cui la celebre motonave “Barletta”. Le possibilità operative del porto risultarono, inoltre, pesantemente compromesse per almeno tre settimane (Ibidem). Per gli alleati le perdite si rivelarono dunque assai gravi, inferiori solo a quelle patite durante l’attacco a Pearl Harbor, ma se si considerano gli effetti, anche sul lungo periodo, dell’invasione della nube tossica in città, l’episodio assume una gravità ancora maggiore, tanto da far guadagnare al capoluogo pugliese il triste primato di maggior teatro di guerra chimica del secondo conflitto mondiale. Ciononostante, il governo di Washington non volle ammetterne la reale portata, anche perché – così si disse – non intenzionato a rivelare il possibile imminente impiego di potenti armi chimiche sul suolo italiano (sull’argomento cfr. anche D. Notarangelo, 2 DICEMBRE 1943, IL DISASTRO AEREO SU BARI, La Piazza, Sammichele, n. 1 del 2004).
Tra i civili caduti, come si è detto, anche i componenti di una famiglia originaria di Gioia: la signora Nietta De Bellis, di anni 43, e i figli Lia, di anni 18, Angelo, di anni 15, Stellina, di anni 5, e Gennarino di anni 4, che attualmente riposano nel piano interrato del cimitero monumentale di Gioia: i loro loculi difficilmente passano inosservati, in quanto disposti in maniera particolare, a mo’ di croce, completata dall’urna dell’unico scampato alla tragedia, il padre Vito, morto nel 1978.
Ma il numero dei civili gioiesi periti durante il conflitto avrebbe potuto essere ben più pesante se, la notte tra il 25 e il 26 giugno dello stesso anno, gli aerei anglo-americani avessero bombardato Gioia e non Sannicandro, come invece avvenne. Il penoso bilancio finale ammontò a 87 vittime, una vera catastrofe per una cittadina che fino a quel momento, come racconta V.U. Celiberti, aveva conosciuto la guerra solo in modo indiretto, essendo rimasta “ai margini della storia” (Cit. DA MONTE SANNACE A GIOIA – STORIA DI DUE CITTA’, Editrice Tipografica, 2002, pag. 363). A lungo si è ritenuto che il vero obiettivo dell’attacco fosse l’aeroporto di Gioia, non individuato dai bombardieri forse perché coperto, quella sera, dalla nebbia. Dello stesso avviso furono i cittadini gioiesi, i quali sentirono tanto il rumore degli aerei quanto il suono della sirena che annunciava il bombardamento, ma quando poi uscirono dal rifugio e videro le loro case intatte pensarono ad un miracolo, oppure ad un tragico anche se propizio, almeno per loro, “scambio di campanile”. Tuttavia più di recente questa ipotesi è stata scartata poiché si ritiene che l’aerostazione potesse servire agli alleati, che proprio in quelle settimane stavano conquistando le estreme propaggini meridionali della penisola, sia per i rifornimenti logistici sia per le partenze dei bombardieri. Più verosimile sembra l’ipotesi che l’errore si sia verificato, ma che a beneficiarne sia stata Santeramo, sede di una polveriera, e non Gioia (Ivi, pag. 373).
Oltre a quanto detto in precedenza, va aggiunto che altresì nel nostro comune e in tutta la provincia non mancarono scontri, anche piuttosto cruenti, tra le truppe tedesche e le improvvisate ma valide formazioni partigiane locali, nei giorni immediatamente successivi all’armistizio: l’episodio più drammatico in proposito fu la fucilazione di undici guardie municipali e due netturbini a Barletta il 12 settembre 1943.
I drammi non terminarono, purtroppo, dopo il dicembre del ’43, ma il pesante e ingiusto sacrificio della famiglia De Bellis resta unico nella sua inconsueta gravità, e rappresenta una sorta di versione civile di “salvate il soldato Ryan”, anche se in questo caso nessun generale magnanimo avrebbe potuto ritirare il solo superstite di quella famiglia dal fronte, perché il teatro della guerra per ogni cittadino non era più solo la trincea, come era accaduto in genere in passato, ma la propria città, la propria strada, la propria casa.
Questa tremenda trasformazione derivava principalmente dall’impiego dell’aviazione come mezzo di guerra, un mezzo che se poteva contribuire a limitare le perdite fra le forze di chi attaccava, aumentava inevitabilmente quelle di chi subiva. Eppure, a dispetto di questa ovvia considerazione, negli ultimi anni qualcuno ha coniato la paradossale espressione di “bombardamento umanitario”, contro la quale sembrano calzanti le parole pronunciate dallo stratega Townshend nel 1921: “in considerazione delle accuse di barbarie rivolte agli attacchi aerei sarebbe opportuno pensare a salvare le apparenze, formulando regole più blande e limitandoli, formalmente, agli obiettivi di carattere strettamente militare […], per evitare di porre in luce la verità che la guerra aerea ha reso obsolete e impossibili siffatte restrizioni” (rip. in E. Hobsbawn, OP. CIT., pag. 33).
Domenico Paradiso
Mistero sul bombardamento di Bari del 1943
Autore Gabriele ZAFFIRI
martedì 04 dicembre 2007
Che cosa ci fu dietro il bombardamento tedesco del porto di Bari nel dicembre del 1943? E quello che vedremo nella disamina di questo articolo.
Nel corso della seconda guerra mondiale i porti di Bari e Taranto
erano considerati dalle forze alleate due fra i più attivi e
strategicamente importanti porti di tutto il mezzogiorno italiano,
anche per il cospicuo numero di mezzi e navi che i porti
delle due città custodirono per tutta la durata del conflitto.
Ambedue gli attracchi tuttavia furono teatro di diversi disastri
navali e misteriosi scenari bellici che, come spesso accade,
penalizzarono soprattutto la popolazione locale. Bari visse
due pesanti disastri navali, tra i quali il secondo fu fra i più
disastrosi di tutta la guerra.Autore Gabriele ZAFFIRI
martedì 04 dicembre 2007
Che cosa ci fu dietro il bombardamento tedesco del porto di Bari nel dicembre del 1943? E quello che vedremo nella disamina di questo articolo.
Il primo colpì la città pugliese il 9 aprile 1943 alle 11.57, allorché il piroscafo americano ''Charles Henderson'' esplose a causa di un incidente con il carico di materiale bellico. Pesante fu il tributo in vite umane. I morti (accertati), fra gli abitanti del vicino borgo antico e gli scaricatori del porto, furono 175 con 142 dispersi. In totale 317 persone furono travolte e uccise dalla devastante deflagrazione. Più di 600 i feriti gravi, migliaia in modo lieve. Un centinaio le vittime tra gli alleati.
Oltretutto l'esplosione che investì tutto il borgo antico, provocò pesanti danni alla Cattedrale, alla Basilica di San Nicola e alla Chiesa russa.
Ma disastro ancor più grave fu quello che patì Bari il 2 dicembre 1943, a pochi mesi dall'esplosione della nave
''Henderson''. Il porto di Bari in cui erano ormeggiate decine di navi alleate, subì un pesantissimo bombardamento aereo, organizzato dalla ''Luftwaffe'', l'aeronautica militare tedesca. Dopo un volo di ricognizione di un Me.210 pilotato dal tenente Werner Hahn sul porto di Bari ad una quota di 23.000 piedi, alle 19.25 di quel giorno una vera pioggia di ordigni furono sganciati da 105 bombardieri Ju-88 Junker della 2^ Luftflotte del Feldmaresciallo Wolfram von Richtofen, il cugino del famoso “barone rosso” della 1^ guerra mondiale, investendo le navi del porto che si concentravano compatte presso il molo foraneo. Non una bomba mancò l'obbiettivo in virtù del forte assembramento di mezzi. L’attacco sarà una vera sorpresa per il comando alleato. Le navi affondate furono 17, di cui 5 statunitensi, 5 inglesi, 3 norvegesi, 2 italiane e 2 polacche, e 7 furono le danneggiate, di cui 2 statunitensi, 2 inglesi, 1 italiana, 1 norvegese e 1 olandese. Tra le navi affondate vi era la statunitense ''John Harvey'' carica di bombe all' iprite. Il numero di vittime non è mai stato accertato; i morti ammonterebbero a circa 1.000 tra militari e marinai, mentre i feriti ammonteranno a 800 persone.
Ben 628 persone soffriranno tra immense atrocità prodotte dall’ iprite, e 69 persone moriranno nelle due settimane successive all’attacco, e nei loro referti medici [oggi declassificati], su esplicite pressioni di Winston Churchill, verrà scritto:”Morti a seguito di ustioni dovute ad azione nemica”. Il porto di Bari verrà chiuso per tre settimane. Per la gravità del disastro, quello di Bari è conosciuto come il peggior disastro navale della seconda guerra mondiale dopo l’attacco di Pearl Harbor in cui le navi demolite furono parimenti 17.
L’evento rimasto segretato, anche se notizie in merito circolavano già dalla fine del conflitto, riguarda un carico segreto che aveva nelle stive la nave statunitense “John Harvey”: trasportava un carico di 2.000 bombe M47A1 all’iprite [quasi 10 tonnellate], un gas proibito dal trattato di Ginevra.
Navi distrutte (per un totale di 76.936 tonn.):
* John Harvey (US Liberty, 7177 gt)
* John L. Motley (US Liberty, 7176 gt)
* John Bascom (US Liberty, 7176 gt)
* Joseph Wheeler (US Liberty, 7176 gt)
* Samuel J. Tilden (US Liberty, 7176 gt)
A cura di Primo Di Nicola
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Ricordi di Guerra
A cura di Angela Marzella
A cura di Angela Marzella
Ciò che mi sconvolge al giorno d’oggi è notare come
si possano vedere immagini di guerra, morti, invalidi, bombe,
distruzioni, soprusi con una indifferenza indicibile, mentre si
sorseggia magari un buon caffè sdraiati su una comoda poltrona. Sono
passati molti anni, ma ancora adesso non riesco a vedere un filmato o
un documentario, o una cattiva notizia al telegiornale senza che una
stretta non mi attanagli il cuore e mi faccia lacrimare. Per fortuna
episodi della mia infanzia, vissuta questa nel periodo bellico, sono
diventati così ovattati da smorzare quel dolore intenso che mi
provocavano. Posso cominciare da ciò che per molti può sembrare banale,
ma che per un genitore e una figlia diventa tragedia. Mio padre partì
per la guerra, rimase in Albania, Grecia, poi prigioniero a Milano,
oltre la linea Gotica, ritornò per fortuna mia e sua, ma io già seienne
lo appellai dicendo “chi sei tu” “vattene, non ti conosco..” Questo fa
la guerra: distrugge le famiglie di coloro che non l’hanno dichiarata.
Ripenso al giorno in cui scoppiò al porto di Bari la
nave. Ho ricordi nitidi non degli avvenimenti bellici, s’intende,
perché piccola, ma del luogo in cui mi trovavo e delle azioni che
facevo. Ero con la nonna per strada, fortuna volle a chilometri di
distanza, e notai il cielo nerissimo con nuvoloni enormi; per il boato
mi ero aggrappata al sottanone della nonna e proseguii la strada
insieme a lei di gran corsa nascosta sotto il suo lungo soprabito.
A sera notai casa diversa dal solito. Eravamo in quattro, io con mamma e i due nonni paterni a vivere in quella casa enorme in periferia, (ora inesistente perché in seguito anche eliminata dal Comune poiché doveva essere sostituita insieme a tante altre da quell’ arteria col ponte che dall’hotel Ambasciatori porta a Japigia ), che per grazia del Cielo nonno aveva voluto fabbricare lontano dal centro abitato. Ma quel giorno contrariamente al solito cominciò ad affollarsi di gente. Erano parenti? Buh, non li conoscevo, ma tutti erano conosciuti dai nonni. Andai a dormire, ma ricordo che quando al mattino cercai di raggiungere il bagno dovetti muovermi tra una massa enorme di materassi posti per terra e tra gente che dormiva in ogni dove. Non si notava più un mattone libero. Erano gli sfollati che avevano avuto le loro case distrutte o pericolanti nei pressi del porto.
Nei giorni successivi anche il rifugio era invaso da gente. Era curioso il nostro rifugio personale; sembrava di stare sottoterra nella tana delle talpe. Nonno l’aveva fatto costruire nel centro del giardino della nostra casa. Chiunque entrava non poteva notare fra gli alberi e le piante una botola mimetizzata che appariva come piantagione. Attraverso quell’apertura si scendeva. Si notavano degli scalini scavati nella terra, dopo si accedeva ad una galleria in cui io sgambettavo beatamente e giocavo anche, mentre tutte le persone entrando erano costrette a curvare la spalla; lo so perché sentivo ogni volta il loro respiro sulla testa. La galleria non aveva il soffitto alto e neppure doveva essere larga perché ricordo che c’erano lateralmente dei lunghi sedili sempre ottenuti scavando nel terreno. Quando le persone si sedevano da una parte e l’altra le loro ginocchia quasi si toccavano.
In una delle tante incursioni aeree io bambina dormivo nel lettino. La sirena avvisava di correre ai ripari. Qualcuno della famiglia consigliò di lasciarmi dormire tranquilla invece di portarmi nel rifugio. Mamma rispose, così mi raccontava : “ Dormiente o sveglia, deve stare con me”. Mi portarono addormentata nel rifugio. Nel risalire videro il letto su cui avrei dovuto essere pieno di tutti i vetri rotti della finestra accanto! Viva per miracolo e per intuizione di madre. Curiosamente, quel buio pesto del rifugio, illuminato solo a volte da qualche sporadica candela, mi piaceva.
A sera notai casa diversa dal solito. Eravamo in quattro, io con mamma e i due nonni paterni a vivere in quella casa enorme in periferia, (ora inesistente perché in seguito anche eliminata dal Comune poiché doveva essere sostituita insieme a tante altre da quell’ arteria col ponte che dall’hotel Ambasciatori porta a Japigia ), che per grazia del Cielo nonno aveva voluto fabbricare lontano dal centro abitato. Ma quel giorno contrariamente al solito cominciò ad affollarsi di gente. Erano parenti? Buh, non li conoscevo, ma tutti erano conosciuti dai nonni. Andai a dormire, ma ricordo che quando al mattino cercai di raggiungere il bagno dovetti muovermi tra una massa enorme di materassi posti per terra e tra gente che dormiva in ogni dove. Non si notava più un mattone libero. Erano gli sfollati che avevano avuto le loro case distrutte o pericolanti nei pressi del porto.
Nei giorni successivi anche il rifugio era invaso da gente. Era curioso il nostro rifugio personale; sembrava di stare sottoterra nella tana delle talpe. Nonno l’aveva fatto costruire nel centro del giardino della nostra casa. Chiunque entrava non poteva notare fra gli alberi e le piante una botola mimetizzata che appariva come piantagione. Attraverso quell’apertura si scendeva. Si notavano degli scalini scavati nella terra, dopo si accedeva ad una galleria in cui io sgambettavo beatamente e giocavo anche, mentre tutte le persone entrando erano costrette a curvare la spalla; lo so perché sentivo ogni volta il loro respiro sulla testa. La galleria non aveva il soffitto alto e neppure doveva essere larga perché ricordo che c’erano lateralmente dei lunghi sedili sempre ottenuti scavando nel terreno. Quando le persone si sedevano da una parte e l’altra le loro ginocchia quasi si toccavano.
In una delle tante incursioni aeree io bambina dormivo nel lettino. La sirena avvisava di correre ai ripari. Qualcuno della famiglia consigliò di lasciarmi dormire tranquilla invece di portarmi nel rifugio. Mamma rispose, così mi raccontava : “ Dormiente o sveglia, deve stare con me”. Mi portarono addormentata nel rifugio. Nel risalire videro il letto su cui avrei dovuto essere pieno di tutti i vetri rotti della finestra accanto! Viva per miracolo e per intuizione di madre. Curiosamente, quel buio pesto del rifugio, illuminato solo a volte da qualche sporadica candela, mi piaceva.
Non mi faceva paura. Difatti il vicinato si
meravigliava di questa bimba che percorreva metri e metri di giardino
nella solitudine e nel buio illuminato solo da lucciole e stelle tanto
che mi appellavano bonariamente “ Fata Lucia “. E poi bisogna dire che
diversi episodi mi capitarono, costringendomi a capire, per fortuna
momentaneamente, cosa sia la cecità. Ricordo che un’infezione agli
occhi mi costrinse a svegliarmi ogni mattina con tanto pus alle
palpebre che rimanevano chiuse e serrate tipo colla. Urlavo al mattino e
mamma si precipitava a lavarmi tutte le croste che si erano formate
durante la notte. Un’altra volta ancora, mentre ero nei pressi di un
passaggio a livello penetrò in un occhio un carboncino prodotto dalla
locomotiva. Non so se per mancanza di medici, o di mezzi, o perché io
fossi terribile e mi dimenavo tanto quando mi mettevano le mani addosso
da non dare la possibilità di farlo ad alcuno, certo è che dovetti
aspettare il rientro settimanale di uno zio il sabato successivo perché
qualcuno mi ridesse la possibilità di vedere. L’occhio ne fu
compromesso per un bel po’. Ed anche quella volta, come in ogni
situazione brutta, i ricordi divennero piacevoli, perché una bella
azione compensava la brutta: era la nonna che mi portava al mattino,
appena sveglia, un po’ d’acqua calda, per “sciacquare le canarile“ ;
era il suo modo di dire su qualsiasi bevanda ti proponesse, in quanto
sicuramente era il meglio che potesse offrire in quel momento. Si
alzava presto al mattino per accendere il fuoco. Il suo volto era spesso
sporco di nero perché si passava la mano sporca maldestramente sul
viso perché gli occhi le bruciavano per il fumo del carbone o della
legna, ma a me piaceva dopo pulirle le macchie col suo stesso
fazzolettone.
Era un capolavoro quella donna come aiuto per tutte le madri del vicinato, pronta ad aiutarle quando partorivano, quando si doveva badare ai loro figliuoli, così come era un capolavoro anche per il vicinato quel rifugio personale . Il più vicino, pubblico ed insufficiente, era a km di distanza, in via Pasubio, 41 e noi non avremmo potuto mai arrivarci in tempo oppure ne saremmo rimasti fuori. La scritta con la freccia ed una R è ancora oggi sul muro di una casa in via Alcide De Gasperi, al numero civico 262, poco prima del 272 dove è l’edicola di “Padr ‘eterne” che segnava il confine tra Bari e Carbonara. Il nostro rifugio, ripeto, fu merito del grande mio nonno, ammirato da tutti. Piccolo di statura, molto più basso della nonna (difatti in una foto fu ritratto in piedi vicino alla moglie seduta che manteneva sulle gambe dei bambini), ma un grande uomo. Ripenso ogni tanto alle colazioni fatte con lui… Al mattino pomodori conservati in bottiglia soffritti col peperoncino e pane vecchio delle galline. Sì, perché il pane era razionato; a volte vedevo per casa e non so da dove arrivasse del pane ammuffito che veniva lavato ben bene…e mangiato da noi invece che dalle galline. Per colpa della guerra la nostra bella famiglia benestante, con papà e cinque zii scapoli che apportavano il contributo dei loro stipendi, si era ridotta a quelle quattro anime che erano costrette ad allevare galline, ochette e conigli per poter sopravvivere. E grande fortuna… Almeno noi mangiavamo!
Come ammiravo il nonno! Mi raccontavano che una volta avrebbe dovuto avere la perquisizione in casa da elementi fascisti…Egli aveva compromettenti documenti socialisti.. Lo avvisarono in tempo, raccolse tutto e scappò; rimase per una notte ed un giorno con altri amici su una barca al largo lontano dal porto, per poi rientrare in un’altra casa che per fortuna aveva. Cosa non semplice per i tempi di guerra era anche possedere una radio. Il nonno la faceva apparire miracolosamente in casa all’imbrunire. Dov’era durante il giorno? A sera era tutto un bisbiglio, un sussurro, un ingorgo di suoni striduli, mamma che ripeteva ecco …ecco..ora si sente appena…gira gira…RADIO LONDRA. Era proibito sentire le notizie! Per anni abbiamo conservato anche a guerra finita quel pezzo da museo di radio per poi scoprire, quando l’abbiamo data ad un amatore di Marconi, che era una radio mai vista perché assemblata con i pezzi più vari ed eterogenei! In pratica i miei zii ritornati salvi dalla guerra, o arrivati durante la guerra, non so, avevano fregato i pezzi necessari qua e là, chissà da dove, forse dagli alleati, e l’avevano costruita da soli.
In effetti nei pressi di casa nostra c’era un campo di alleati, dicevano di neo-zelandesi, ubicati alle spalle dell’attuale Svea e Saicaf, tra via Amendola e la ferrovia di Japigia.
Ricordo che passavano con i camion che erano gli unici mezzi motorizzati che vedevamo. Noi si era abituati alle biciclette, a qualche moto, ma per di più ai carri, alle carrozze ed ai cavalli. Una volta fui portata da due militari di cui non capivo il linguaggio e da uno zio che si era inserito come elettricista nel loro accampamento, proprio nella cabina di un camion. Feci una lunga gita …..in pratica pochi chilometri perché si arrivò fino al “macello vecchio” da dove eravamo nei pressi di Mungivacca… ed ebbi anche un bel gelato. Ho ancora chiaro il fazzolettone che mi misero al collo per non farmi sbrodolare!
Ed è curioso il ricordo che ho dell’arrivo degli alleati a Bari. Notammo lontano, sulla vecchia statale 100 (attuale via Amendola, prossimità dell ‘ospedaletto pediatrico Giovanni XXIII) che collegava Taranto a Bari, nuvole all’orizzonte ed un’accozzaglia di oggetti indefiniti. Man mano che si avvicinavano si notava una processione di cose che non avevo mai visto: carri armati, camion carichi di soldati , camionette con militari pieni di mostrine e di armi, cannoni… Io mi trovai lungo il bordo della strada perché con mia nonna ero andata a prendere una cesta d’uva dalla contadina, grappoli stupendi e gustosi. Rimanemmo lì incantate per la visione di questo lunghissimo e stranissimo corteo… A un bel momento infinite mani si sporsero da un camion e la cesta si svuotò dell’uva e si riempì di gallette, cioccolate, caramelle.
Era un capolavoro quella donna come aiuto per tutte le madri del vicinato, pronta ad aiutarle quando partorivano, quando si doveva badare ai loro figliuoli, così come era un capolavoro anche per il vicinato quel rifugio personale . Il più vicino, pubblico ed insufficiente, era a km di distanza, in via Pasubio, 41 e noi non avremmo potuto mai arrivarci in tempo oppure ne saremmo rimasti fuori. La scritta con la freccia ed una R è ancora oggi sul muro di una casa in via Alcide De Gasperi, al numero civico 262, poco prima del 272 dove è l’edicola di “Padr ‘eterne” che segnava il confine tra Bari e Carbonara. Il nostro rifugio, ripeto, fu merito del grande mio nonno, ammirato da tutti. Piccolo di statura, molto più basso della nonna (difatti in una foto fu ritratto in piedi vicino alla moglie seduta che manteneva sulle gambe dei bambini), ma un grande uomo. Ripenso ogni tanto alle colazioni fatte con lui… Al mattino pomodori conservati in bottiglia soffritti col peperoncino e pane vecchio delle galline. Sì, perché il pane era razionato; a volte vedevo per casa e non so da dove arrivasse del pane ammuffito che veniva lavato ben bene…e mangiato da noi invece che dalle galline. Per colpa della guerra la nostra bella famiglia benestante, con papà e cinque zii scapoli che apportavano il contributo dei loro stipendi, si era ridotta a quelle quattro anime che erano costrette ad allevare galline, ochette e conigli per poter sopravvivere. E grande fortuna… Almeno noi mangiavamo!
Come ammiravo il nonno! Mi raccontavano che una volta avrebbe dovuto avere la perquisizione in casa da elementi fascisti…Egli aveva compromettenti documenti socialisti.. Lo avvisarono in tempo, raccolse tutto e scappò; rimase per una notte ed un giorno con altri amici su una barca al largo lontano dal porto, per poi rientrare in un’altra casa che per fortuna aveva. Cosa non semplice per i tempi di guerra era anche possedere una radio. Il nonno la faceva apparire miracolosamente in casa all’imbrunire. Dov’era durante il giorno? A sera era tutto un bisbiglio, un sussurro, un ingorgo di suoni striduli, mamma che ripeteva ecco …ecco..ora si sente appena…gira gira…RADIO LONDRA. Era proibito sentire le notizie! Per anni abbiamo conservato anche a guerra finita quel pezzo da museo di radio per poi scoprire, quando l’abbiamo data ad un amatore di Marconi, che era una radio mai vista perché assemblata con i pezzi più vari ed eterogenei! In pratica i miei zii ritornati salvi dalla guerra, o arrivati durante la guerra, non so, avevano fregato i pezzi necessari qua e là, chissà da dove, forse dagli alleati, e l’avevano costruita da soli.
In effetti nei pressi di casa nostra c’era un campo di alleati, dicevano di neo-zelandesi, ubicati alle spalle dell’attuale Svea e Saicaf, tra via Amendola e la ferrovia di Japigia.
Ricordo che passavano con i camion che erano gli unici mezzi motorizzati che vedevamo. Noi si era abituati alle biciclette, a qualche moto, ma per di più ai carri, alle carrozze ed ai cavalli. Una volta fui portata da due militari di cui non capivo il linguaggio e da uno zio che si era inserito come elettricista nel loro accampamento, proprio nella cabina di un camion. Feci una lunga gita …..in pratica pochi chilometri perché si arrivò fino al “macello vecchio” da dove eravamo nei pressi di Mungivacca… ed ebbi anche un bel gelato. Ho ancora chiaro il fazzolettone che mi misero al collo per non farmi sbrodolare!
Ed è curioso il ricordo che ho dell’arrivo degli alleati a Bari. Notammo lontano, sulla vecchia statale 100 (attuale via Amendola, prossimità dell ‘ospedaletto pediatrico Giovanni XXIII) che collegava Taranto a Bari, nuvole all’orizzonte ed un’accozzaglia di oggetti indefiniti. Man mano che si avvicinavano si notava una processione di cose che non avevo mai visto: carri armati, camion carichi di soldati , camionette con militari pieni di mostrine e di armi, cannoni… Io mi trovai lungo il bordo della strada perché con mia nonna ero andata a prendere una cesta d’uva dalla contadina, grappoli stupendi e gustosi. Rimanemmo lì incantate per la visione di questo lunghissimo e stranissimo corteo… A un bel momento infinite mani si sporsero da un camion e la cesta si svuotò dell’uva e si riempì di gallette, cioccolate, caramelle.
Ma non sempre le cose erano belle. Una volta
scappammo di gran corsa perché la fabbrica “Zanoletti”, posta nelle
vicinanze della nostra villa e che produceva gomme, andò in fiamme ed
il fuoco persistette per diverso tempo. Non so se fu dolo o bomba.
Un’altra volta ricordo che ero con uno zio, zia e mamma verso il lido
Marzulli vicino al mare, quando ad un tratto un aereo cominciò a
falciare e noi corremmo verso una baracca; a mamma sanguinava una
gamba, per fortuna una ferita superficiale.
Una chicca , invece, sull’evasione di papà dalla caserma a Milano. Era lì prigioniero con altri in attesa di deportazione, quando davanti alle sbarre gli si avvicinò una donna che offrì proprio a lui un pacco di sigarette. Nell’interno, arrotolato, un foglio che riportava la mappa della fognatura… In fretta ed in segreto riuscirono ad organizzare la fuga… Dal chiusino si portarono fuori dalla caserma e dalla città. Ogni tanto, arrivati sotto i chiusini stradali, respiravano. Chi si era avventurato dopo, con bagagli vari, rimase per sempre in quella fogna, o anche chi non riusciva a respirare bene, come anche finirono falciati dai colpi dei fucili coloro che erano stati visti sparire lì in fondo dai tedeschi, all’inizio della loro tragica avventura. Papà raccontava che ad un bel momento, nei pressi di un chiusino, trovarono persone che li raccolsero, li lavarono, fecero loro indossare abiti da contadini, e li smistarono immediatamente nelle campagne. Il mio papà, che si chiamava Onofrio, fu ribattezzato col nome di Giacomino e mandato nelle campagne di Caravaggio (provincia di Bergamo). Dopo tanti giorni di digiuno e per le forti esalazioni della fogna non riusciva neppure a mangiare. Un contadino, o forse un militare in incognito o un patriota o chissà chi, gli offrì qualcosa che per la prima volta mio padre vedeva e che continuò a mangiare anche dopo la liberazione: pane e gorgonzola. Diceva che con ciò gli “si apriva lo stomaco..”!
A proposito dei mezzi di locomozione, invece, mi piacerebbe
sottolineare episodi del dopoguerra. Non si parlava alle bambine e poi
future adolescenti di tanti argomenti così detti “impuri “, non
pronunciati dai genitori, condannati dalla Chiesa… ed intanto sulla
pelle delle fanciulle cadevano tante tegole di tristi esperienze. Le
strade a quei tempi non erano asfaltate ed erano percorse da carrettieri
che trasportavano materiale pesante, tipo pezzi di tufo, mattoni,
tronchi di albero , a volte con tutte le chiome. Nel momento in cui i
carri erano vuoti i carrettieri lanciavano i loro cavalli a corsa pazza
nel bel mezzo della strada, incutendo paura a quelle poche persone che
potevano trovarsi sul ciglio tutto sconnesso e col fosso raccogli
acque che allora era presente lungo tutte le strade provinciali. Gli
uomini, però, dopo la guerra avevano una fame di sesso terribile, per
di più anche la parola pedofilo non era nel gergo quotidiano, né alcuno
che lo sapesse lo spiegava. Certo è che due carrettieri su un carro
piatto trainato da due cavalli cominciarono ad inseguire me povera
novenne che pensava di recarsi a scuola, sola, affrontando tre km circa
di strada isolata, deserta. Se correvo facevano aumentare la corsa ai
cavalli, se mi fermavo facevano fermare i cavalli impennandoli ed
essi poi ridacchiavano bestialmente. Cosa fare? Quello che ho imparato
dalla nonna : la difesa del coniglio, cercare spazi piccoli e correre.
Difatti corsi in avanti con quanto più fiato avessi, essi mi inseguirono
a velocità, improvvisamente mi lanciai nel fosso della carreggiata
esattamente al loro contrario e ritornai veloce all’indietro verso la
zona da cui provenivo. Se avessero fatto girare cavalli e carro a
velocità si sarebbero “accappottati”. Ero salva! Un’altra volta,
invece, un tizio era lungo il bordo della strada, accovacciato su un
sasso ed appena mi vide a distanza giungere cominciò con manovre che
non sapevo distinguere: quando fui nei pressi notai il suo membro di
fuori e tanti movimenti di mano… Una chicca , invece, sull’evasione di papà dalla caserma a Milano. Era lì prigioniero con altri in attesa di deportazione, quando davanti alle sbarre gli si avvicinò una donna che offrì proprio a lui un pacco di sigarette. Nell’interno, arrotolato, un foglio che riportava la mappa della fognatura… In fretta ed in segreto riuscirono ad organizzare la fuga… Dal chiusino si portarono fuori dalla caserma e dalla città. Ogni tanto, arrivati sotto i chiusini stradali, respiravano. Chi si era avventurato dopo, con bagagli vari, rimase per sempre in quella fogna, o anche chi non riusciva a respirare bene, come anche finirono falciati dai colpi dei fucili coloro che erano stati visti sparire lì in fondo dai tedeschi, all’inizio della loro tragica avventura. Papà raccontava che ad un bel momento, nei pressi di un chiusino, trovarono persone che li raccolsero, li lavarono, fecero loro indossare abiti da contadini, e li smistarono immediatamente nelle campagne. Il mio papà, che si chiamava Onofrio, fu ribattezzato col nome di Giacomino e mandato nelle campagne di Caravaggio (provincia di Bergamo). Dopo tanti giorni di digiuno e per le forti esalazioni della fogna non riusciva neppure a mangiare. Un contadino, o forse un militare in incognito o un patriota o chissà chi, gli offrì qualcosa che per la prima volta mio padre vedeva e che continuò a mangiare anche dopo la liberazione: pane e gorgonzola. Diceva che con ciò gli “si apriva lo stomaco..”!
Per fortuna era tanto vecchio ed ubriaco che non ebbe la forza di prendermi e d’ inseguirmi. Ma ciò che mi ha fatto tener vivo l’episodio nella mente fu il fatto che il tale signore vendeva palloncini e giocattolini ai bambini durante le sagre, con una strana ed ampia vetrina di legno piazzata su una bicicletta. Mentre le mamme si informavano sui prezzi, egli accarezzava le bambine e le invogliava a scegliere abbassandosi verso di loro e facendo aumentare quell’antipatica scoliosi laterale che aveva. Ricordo che io, trentenne quasi, lo rividi per la sagra di san Nicola ancora nel suo esercizio, però accompagnato da una donna bruna che sembrava il suo carabiniere personale. Truce ella appariva, forte e per nulla comunicativa… ma per me era una dea! Almeno lo faceva star fermo.
E poiché nei tempi più moderni fui tra le prime donne a prendere la patente, spesso ho sentito dire:” Beata te che non trovavi macchine per la strada”. Ma ci pensate trovarsi sulla parte alta del sottovia Quintino Sella, pendenza 50° circa , dietro un carro piatto trainato da due cavalli che scalpitavano perché gli zoccoli sdrucciolavano sulle basole bagnate di pioggia? Ci voleva capacità e soprattutto coraggio.
Durante
i lavori di riqualificazione dell’ex Gasometro di Bari ubicato tra
corso Mazzini, via Napoli e lungomare, gli operai della ditta
Frallonardo, mercoledì 30 gennaio 2013 involontariamente rinvengono un
residuato bellico esplodente risalente alla seconda guerra mondiale.
Per ovvie
ragioni di sicurezza l’area è stata subito isolata ed è ad oggi,
costantemente vigilata dalle Forze di Polizia. La Prefettura allerta
immediatamente l’Undicesimo Reggimento Genio Guastatori di Foggia,
questi ultimi giunti sul posto, riconoscono istantaneamente il residuato
bellico: “bomba d’aereo 500 kg di nazionalità tedesca”. Il team
militare EOD (Explosive Ordnance Disposal), guidato dal Maggiore Manna,
impegnato in operazioni di bonifica bellica sia all’estero quanto in
Italia, prevede, salvo imprevisti, di smaltire il potente ordigno in una
cava in grado d’ospitare la delicatissima fase dell’esplosione
controllata. Intanto il Sindaco Michele Emiliano constatata la mancanza
di pericolo immediato invita la popolazione barese a trascorrere con
serenità queste ore di silente emergenza. Naturalmente la potente bomba
evoca l’incursione aerea tedesca sul capoluogo pugliese del 2 dicembre
del 1943, il SudEst ha deciso d’incontrare un testimone di quel tragico
evento bellico che direttamente, ma anche di riflesso, ha prodotto tra
militari e civili circa 2000 vittime. Infatti il 31 mattina giungo a
Carbonara, in via Bonifacio, devo intervistare Tommaso, padre del sig.
Giuseppe Bux, un socio fondatore dell’omonima tipografia. L’anziano
testimone, nonostante le difficoltà mnemoniche racconta: “ ero
ragazzino, a quei tempi abitavo in una piccola casa del borgo antico, i
tedeschi erano sostituiti dai militari angloamericani. Quella sera mi
trovavo nei pressi di piazza Ferrarese, improvvisamente udivamo il forte
e cupo rumore dei velivoli, poi il primo boato, susseguito da altre
esplosioni. All'istante le tenebre avvolgevano la città. Strazianti urla
di terrore, sembrava giungessero da ogni casa. Dopo pochi istanti
iniziava la nostra sfida al tremendo e mortale fuoco delle detonazioni.
Era l’inferno dei corpi straziati”. Il racconto produce al mio testimone
estrema emozione, perciò decidiamo di sospendere l’intervista, con la
promessa di rivederci in un secondo momento. Saluto l’ospitale famiglia,
con la mente ancora rivolta a quei terribili momenti vissuti dalla
nostra città. Altra terribile testimonianza è curata dal Giornalista
della Gazzetta Del Mezzogiorno, il dott. Armando Fizzarotti il quale in
un suo pezzo (1 febbraio 2013), cita il lavoro del professore Armando
Argentieri autore di una ricerca storica che riconosce l’importanza del
rifugio antiaereo situato nei sotterranei della scuola Balilla al rione
Madonnella di Bari. In conclusione dovremmo ottenere dal rinvenimento
della bomba tedesca e da queste testimonianze l’ulteriore possibilità di
comprendere gli orrori che producono i conflitti armati. Da sempre la
guerra è stata ingiustificatamente decantata da poeti, ricordiamo
l’Omero epico ripreso ai tempi dell’Impero Romano, le guerre Galliche,
le sanguinose battaglie che vedevano contrapposti Saraceni e Franchi,
Franchi e Germanici. La guerra dei cent’anni, quelle napoleoniche. Le
guerre mondiali. Le guerre in Vietnam e Corea, in Medio Oriente. La
guerra tra Iran ed Iraq. In Afghanistan. Impossibile citarle tutte. Però
non è impossibile rammentare la famosa citazione di primo Levi:
“chi dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo”.
Fonte: Archivio di Stato - Bari
Testo consigliato
Disastro a Bari - Glenn B. Infield - Adda editore, Bari 1971
Domenica 21 Giugno 2009,
Associazione “Vedetta sul Mediterraneo”,
presentatazione de " In Fondo Al Mare", un volume
della casa editrice Levante editori Bari, una denuncia sul mistero degli ordigni chimici negli abissi baresi.
Associazione “Vedetta sul Mediterraneo”,
presentatazione de " In Fondo Al Mare", un volume
della casa editrice Levante editori Bari, una denuncia sul mistero degli ordigni chimici negli abissi baresi.
9 aprile 1945 - Esplosione della Charles Henderson
…Ore 11.57 del 9 aprile 1945, una nave
carica di munizioni, la Charles Henderson, ancorata presso la banchina
14, del porto di Bari, esplode e provoca la morte di numerosi militari e
civili…
Il fronte meridionale in Europa è
ancora un fuoco ardente, infatti la 15° Forza Aerea opera su obbiettivi
come Verona, Brescia, Bologna, Brennero, ecc...
La 12° Forza aerea nello stesso mese
incursiona: Pavia, Voghera, Vigevano, La Spezia, San Benedetto Po,
Ostiglia, Piacenza, San Ambrogio di Valpolicella, ecc…
Per ciò dagli Stati Uniti continuano a partire navi cariche d’ogni
rifornimento necessario, sia all’aviazione di base in Puglia, quanto per
le truppe impegnate, tra le decisive battaglie, del nostro nord
nazionale. Queste moderne navi (Liberty) approdono, nel porto di Bari.
La Charles Henderson incaricata al trasporto di munizioni addette per lo scopo, il 14 marzo del 1945, dal porto di Norfolk, inizia congiuntamente ad altre 45 navi il suo ultimo viaggio.
Per l’Henderson e le altre unità navali alle ore 13 del 29 marzo nascono i primi guai.
Infatti nei pressi dello stretto di Gibilterra il convoglio, patisce un attacco portato a termine da sommergibili tedeschi.
L’Henderson riesce ugualmente a raggiungere prima la Sicilia e, più precisamente il porto d’Augusta.
Dopo una breve sosta per rifornimento l’Henderson giunge a Bari la mattina del 5 aprile, dove ormeggia presso la banchina N. 21.
Per ragioni logistiche è spostata alla banchina N. 16.
All’interno delle proprie stive sono accatastate, 6.675 tonnellate di bombe d’aereo e munizioni varie.
Le operazioni di scarico dell’Henderson, iniziano immediatamente. I marinai sbarcano 2.450 tonnellate di materiale bellico.
Ma la mattina del 9 aprile è inviata alla banchina N. 14.
I lavoranti addetti riprendono immediatamente lo scarico della stiva N. 5, (dove i portuali sgravano la nave d’altre 500 tonnellate di bombe d’aereo). Alle ore 11.57 la nave esplode.
Questo breve racconto è tratto dalla brochur scritta in occasione della Cerimonia Commemorativa del 9 aprile 2008, “ Quelli Della Charles Henderson” voluta dall’Autorità Portuale di Bari, Capitaneria di Porto e Guardia Costiera, Regione Puglia, Provincia di Bari e Comune di Bari.
Unica incongruenza storica, la voce: “… Che gli inglesi causano l’esplosione della nave, per paura di un “imminente arrivo delle truppe germaniche…”.
Ma come sappiamo benissimo tutti, in quella data i militari tedeschi sono già stremati ed agonizzanti a difesa della Linea Gotica. Il 17 aprile la forza anglo-americana supera, ogni resistenza e il 21 dello stesso mese libera Bologna.
Ovviamente chi desidera l’opuscolo originale, lo può trovare In questi uffici delle Autorità citate.
Unico dispiacere è constatare come la città di Bari, che ospita Il Sacrario dei Caduti Della Seconda Guerra Mondiale, non ha mai considerato un Monumento visibile da indirizzare nei confronti delle tragedie cittadine. Mi spiego: Non serve una specie di Croce accolta all’interno, dal Cimitero Comunale, obbligatoriamente occultata alla vista di concittadini, scolaresche e turisti.
Ciò, che si richiede, è un solenne Monumento dedicato alle vittime del 2 dicembre 1943 e del 9 aprile 1945, un monito, di marmo e bronzo, verso ogni logica di guerra. I luoghi dove realizzarlo in Città certo, non mancano. Lancio l’idea del nuovo giardino di “…Punta Perotti”.
Video dell'EX-ICRAM sulle armi chimiche
Iprite a Bari, l'ultimo mistero di guerra
Dopo settant'anni, ancore oscure le motivazioni
Giovedì 1 Dicembre 2011Il 2 Dicembre del 1943, la Puglia e particolarmente Bari, diede un'altissimo contributo di sangue alla guerra che non finiva mai. Il pomeriggio di detta data, erano circa le 19,30, 105 bombardieri della Luftwaffe tedeschi, presero d'assalto il porto barese pieno zeppo di navi alleate. Almeno un migliaio di morti causati dalle diverse esplosioni e dal carico d'iprite cui era colma e zeppa una nave battente bandiera americana: John Harvey. E' utile precisare che i gas mortali, furono utilizzati tantissimo durante la Prima Guerra Mondiale, diversamente nella Seconda Guerra tutte le Potenze Militari ritennero inutile utilizzarli, oltretutto proibito dalle convenzioni militari.
Allora sorge spontanea una domanda: cosa avrebbero dovuto fare gli Alleati con quel gran quantitativo d'iprite? Cosa ci faceva la nave ormeggiata a Bari? A distanza di quasi settant'anni, il mistero è ancora vivo, accennato appena nei libri di storia e coperto da segreto militare. Un civile Augusto Carbonara che assistette al bombardamento dalla finestra della sua camera da letto, cosi ci racconta: A Bari il sole è tramontato da due ore, nel cielo sereno solo una piccola falce di luna. L'aria è chiara e luminosa ed il mare calmo e nel porto le luci delle navi illuminavano la banchina. Alle 19.25 suonano le sirene dell'allarme aereo, tutte le luci si spengono e nel frattempo un rombo di aerei arriva da nord-est. Cadono le prime bombe e si odono le prime esplosioni, mentre candelotti illuminanti vengono fatti paracadutare e lentamente illuminano il porto.
Nel complesso verranno affondate 5 navi americane, quattro inglesi, tre norvegesi, tre italiane (tra cui la nave Barletta, Frosinone e Cassala) e due polacche. Sette le navi gravemente danneggiate. La sorpresa dell'attacco e l'ignoranza del carico della Havey, causarono i danni più gravi. Non esistevano rifugi anti-aerei, non esistevano mezzi di protezione personale, tutti rimasero ai loro posti fino alla fine del bombardamento. Il maledetto gas, mescolandosi alla nafta, creò un velo mortale su tutta la superficie del porto. Coloro che dalle navi si tuffavano in acqua furono ben presto inzuppati dalla sostanza che bruciava la pelle e intossicava i polmoni. Gli ospedali ben presto si riempirono di feriti più che colpiti dalle esplosioni, erano provati dell'effetto del gas.
Ma non si sapeva che era il gas iprite a causare questi effetti devastanti poichè nessuno intuì subito. Dopo cinque ore circa, cominciarono i primi decessi, tutti quasi improvvisi, gente che stava pian piano riprendendosi, di colpo spirava, tutti avevano la pelle piena di vesciche e sulle ascelle, all'inguine ed ai genitali la pelle si staccava come nelle gravi ustioni. Quale fu il numero dei morti? Impossibile calcolarne il numero ma sicuramente intorno al migliaio tra civili e militari. Questo evento, unico nella Seconda Guerra, viene ricordato come la Pearl Harbour del mediterraneo ed è sicuramente stato il più grande disastro chimico. Furono recuperate moltissime bombe non ancora esplose, ognuna delle quali conteneva circa 30 kg di gas, mentre il restante come la maggior parte di residuati bellici non ancora esplosi, vennero fatti caricare su dei zatteroni, portati a largo e fatti inabissare.
Anche il porto di Barletta fu una delle basi di partenza di questa enorme massa di residuati bellici, fino ad ora si suppone che gli involucri contenenti le sostanze tossiche siano ancora integri, ma quando la corrosione arriverà a distruggerli cosa accadrà nei nostri mari? Ci sono poi quei casi in cui i residuati bellici, spinti dalle correnti, tornano verso riva, proprio lo scorso anno a Barletta furono fatti brillare due di essi. Il miracolo avvenne quando cominciò a soffiare il vento di levante, evitando il pericolo devastante della coltre su tutta la città , forse fu il buon San Nicola che volle ancora una volta salvare la propria città.
Ruggiero Graziano
Fonte: http://www.barlettalife.it/magazine/ireport/iprite-a-bari-l-ultimo-mistero-di-guerra/
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