Ottobre 1917 Un’occasione per riflettere
Generale B. Tullio Vidulich
L’Austria per eliminare la grave situazione venutasi a creare sul fronte dell’Isonzo e per risolvere gravi difficoltà di ordine interno decise di sviluppare una energica operazione offensiva con l’appoggio di unità germaniche per conseguire un radicale mutamento della situazione.
L’8 settembre venne firmato un accordo tra i Comandi Supremi austro-ungarico e germanico per sanzionare la decisione di condurre una operazione offensiva sul fronte dell’Isonzo.
Il momento prescelto era molto favorevole per condurre un’offensiva contro l’Italia in quanto l’esercito russo era in pieno sfacelo e, sul fronte occidentale, dopo il fallimento dell’offensiva Nivelle, l’esercito francese era da tempo sulla difensiva.
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 la 14a Armata austro-tedesca (costituita da 8 divisioni austriache e 7 tedesche), agli ordini dell’abile generale tedesco Otto von Below, lanciava una potente offensiva (denominata “Waffentreue” – “Fedeltà d’Armi”) contro le linee italiane in corrispondenza delle conche di Plezzo e Tolmino, considerate dal generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell’armata mista, le posizioni più deboli dello schieramento avversario in quel settore del fronte isontino, con l’obiettivo di raggiungere il fiume Tagliamento.
Alla destra della 14a Armata operava la 10a Armata austro - ungarica mentre a sud della 14a Armata, sul basso Isonzo, agiva il Gruppo d’Esercito del generale Boroevic..
L’azione sferrata con nuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano (breve e terrificante preparazione di artiglieria nelle retrovie, lancio di granate con gas tossici sulle posizioni di Plezzo e Tolmino e infiltrazioni di reparti scelti nei fondi valle alle spalle dei reparti italiani) nel giro di poche ore apriva una consistente breccia in corrispondenza di Tolmino ad opera della 12a Divisione slesiana e della divisione Alpenkorps che risalendo la valle dell’Isonzo con grande rapidità giunsero alle spalle delle linee del IV Corpo d’Armata, in coincidenza di Caporetto, determinando il ripiegamento disordinato della 2a Armata del generale Capello.
Nella giornata del 25 ottobre le falle aperte in corrispondenza di Plezzo, Caporetto e Tolmino si allargarono sempre di più, al punto che divenne impossibile arrestare il nemico. Il giorno 26 i tedeschi conquistavano Monte Maggiore e si aprivano così le vie per Cividale e Udine.
Il giorno 27 ottobre in seguito al precipitare degli eventi il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’esercito, dava l’ordine di ripiegamento generale al fiume Tagliamento alla 2a e 3a Armata e alle truppe della Zona Carnia.
Il 28 cadeva Udine e, dopo una disperata resistenza davanti ai ponti del fiume Tagliamento, le divisioni italiane proseguivano la ritirata sino al Piave.
Durante quella drammatica battaglia (passata alla storia come Battaglia di Caporetto) l’esercito italiano perse 300.000 uomini (prigionieri in gran parte della 2a Armata), 3500 pezzi di artiglieria, 1730 mortai e bombarde, 2800 mitragliatrici e una ingente quantità di materiale. Nei primi giorni dell’offensiva caddero 10.000 soldati e più di 30.000 furono i feriti. L’Esercito ebbe, inoltre, 350.000 sbandati che poi vennero raccolti e recuperati.
La sera del 27 ottobre, dopo aver raggiunto Treviso, il generale Cadorna, emetteva il Bollettino di Guerra con il quale si imputava la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Con quel disonorevole Bollettino il generale Cadorna addebitava alla truppa la responsabilità della rotta di Caporetto e non invece a manchevolezze ed errori del suo Comando.
Per fermare la massa degli sbandati della 2a Armata e regolare lo sgombro dei reparti il Comando Supremo dovette ricorrere a decisioni estreme: furono impiegati plotoni di esecuzione che eseguirono fucilazioni sommarie di soldati presi a caso fra gli sbandati in fuga.
La ritirata di Caporetto fu un evento tragico che lasciò segni indelebili sugli avvenimenti del nostro paese: soldati e popolazione civile delle province occupate pagarono un enorme tributo di sangue, di sofferenze e di distruzioni.
Nel giro di poche ore la guerra travolse il destino di migliaia di soldati e di oltre un milione di civili delle province di Udine, Treviso, Belluno, Venezia, Vicenza mediante furiosi combattimenti innescati in ogni paese, nei casolari, lungo le strade, davanti ai ponti dei fiumi, accompagnati da saccheggi e violenze contro le popolazioni inermi compiute dall’invasore che si impossessava delle misere scorte alimentari dei contadini, depredava gli animali nelle stalle per poter cibarsi (molti reparti erano senza viveri) e sequestrava le opere d’arte nelle ville patrizie. Interessante leggere la viva testimonianza lasciataci da Cesco Tomaselli, capitano del Battaglione Alpini Belluno, nel suo libro “Gli ultimi di Caporetto”, dove descrive le dolorose vicende della ritirata. Durante quella fase di rottura del fronte le forti genti della Carnia, del Cadore, del Friuli affrontarono l’imprevista situazione con grande dignità, sostenendo i nostri soldati che andavano incontro al baldanzoso nemico.
Al rovescio militare contribuì anche il disfattismo che si era diffuso nei mesi precedenti fra il popolo e alcune unità combattenti fortemente provate dalle pesantissime perdite di vite umane e da alcuni gruppi massimalisti del Partito Socialista nonché dall’attività di alcuni partiti sovversivi incoraggiati dalla rivoluzione russa e dall’iniziativa del papa impegnato a promuovere iniziative di pace fra le nazioni belligeranti.
Sulle montagne e davanti ai ponti del Tagliamento numerosi furono gli episodi eroici dei nostri soldati che si sacrificarono per consentire il ripiegamento del grosso delle armate italiane e per arginare le incalzanti avanguardie nemiche tese all’occupazione dei ponti stradali e ferroviari.
Desidero ricordare gli atti di valore più significativi compiuti dai reparti di ogni arma e specialità durante quelle drammatiche giornate. Eroico fu il comportamento del Battaglione Alpini Val d’Adige nella difesa di Monte Ieza, e dei valorosi fanti della Brigata Potenza in difesa di Monte Maggiore e il generoso ed eroico impegno degli alpini e dei bersaglieri che sul Costone di Pleca per 36 ore fermarono l’avanzata di una Brigata austriaca da montagna. E ancora il giorno 28 ottobre il Reggimento “Saluzzo” combatté valorosamente a Beivars e a San Gottardo, il 29 i Reggimenti Lancieri “Aosta” e “Mantova” fermarono le avanguardie nemiche a Fagagna, mentre gli Squadroni di “Roma” e “Monferrato” arrestarono gli austro-ungarici a Pasian Schiavonesco.
Leggendaria l’eroica resistenza dei Reggimenti “Genova Cavalleria” e “Lancieri di Novara” agli ordini del generale Emo Capodilista e di reparti della Brigata “Bergamo” a Pozzuolo del Friuli che si sacrificarono per proteggere il ripiegamento della 3a Armata così come la generosa resistenza dei granatieri di Sardegna a Lestizza e la accanita lotta della Brigata “Bologna” schierata sulle colline di Ragogna: per tre giorni resistette coraggiosamente agli assalti furibondi dei tedeschi che volevano conquistare il ponte di Pinzano.
“Di molti di questi eroi immolatisi per la Patria” afferma Cesco Tomaselli, ufficiale degli alpini che visse sulla sua pelle la ritirata con il Battaglione Belluno “non si saprà il nome, non si conosceranno mai le gesta: segnalati ai comandi superiori con l’equivoco termine di dispersi, essi sono i più ignoti fra gli ignoti, perché nessuno è tornato di chi li vide cadere, nessuno può riscattare le loro memorie e solo la madre, che sa di averli educati alla legge del dovere, coltiva nel suo dolore l’orgoglio di pensarli non indegni di quella uniforme che essi onorarono cadendo”.
Per evitare la manovra di aggiramento avversaria, nella notte del 3 novembre anche la 4a Armata che difendeva il Cadore iniziò il ripiegamento con l’ordine di organizzare la difesa del Monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell’Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave.
Nonostante il disastro subito l’esercito ed il paese ritrovarono la forza e la volontà di resistere e di combattere sul Piave con grande coraggio e alto senso di responsabilità. Il Piave divenne il fulcro e simbolo della volontà di riscossa di tutto il popolo italiano.
Il mattino del 9 novembre il Comando Supremo dell’esercito fu assunto dal generale Armando Diaz, al quale venivano affiancati, nelle vesti di sottocapo di stato maggiore, i generali Pietro Badoglio e Gaetano Giardino. Il generale Diaz subito si mise al lavoro per elevare l’efficienza dell’esercito ed il morale delle truppe che da poco avevano subito una rovinosa ritirata.
Le cause della sconfitta italiana si debbono ricercare nel Comando Supremo che non riuscì ad individuare il momento, il punto di rottura prescelto e le nuove modalità tattiche dell’avversario. Altri elementi contribuirono a facilitare il successo nemico il 24 ottobre: l’ampio uso dei proietti a gas , specie nella conca di Plezzo, il mancato intervento delle poderose artiglierie del XXVII Corpo d’Armata del generale Badoglio il quale si era riservato di impartire personalmente l’ordine di intervento dell’artiglieria (700 pezzi di medio e grosso calibro) ma che al momento di aprire il fuoco non fu in grado di impartire gli ordini a causa della distruzione di tutti i mezzi di comunicazione, la manovra di accerchiamento della 12a Divisione slesiana che a Caporetto piombò alle spalle del IV Corpo d’Armata provocando disordine e sfiducia e che aperse le vie verso la pianura. Altra causa fu l’infelice dislocazione e impiego della riserva del Comando Supremo e delle riserve di Armata in corrispondenza dello sfondamento, nonché l’atteggiamento controffensivo dei reparti della 2a Armata nonostante che il generale Cadorna il 18 settembre avesse emanato ordini per organizzare la difesa a oltranza delle posizioni. La sconfitta di Caporetto fu essenzialmente militare e generata dalla sorpresa in campo strategico del Comando Supremo. La sconfitta subita dagli italiani non fu certo più grave di altre sconfitte subite dai nostri alleati francesi, inglesi e russi e dai nostri avversari durante la Prima Guerra Mondiale.
I nostri alleati ebbero disastri ben più gravi della ritirata di Caporetto; più gravi sia per perdita di territorio che per perdite di uomini e mezzi militari e civili (ricordo la Battaglia di Gorlice-Tarnow, nel maggio 1915, dove i russi fecero una ritirata di 380 chilometri, persero Varsavia e accusarono gravissime perdite di soldati e artiglierie; la disastrosa offensiva del generale Nivelle, nell’aprile del 1917, che fallì miseramente subendo 180.000 perdite fra morti e dispersi con ammutinamenti di intere divisioni; l’offensiva tedesca della Somme e delle Fiandre, nel marzo del 1918, che causò agli anglo – francesi la perdita di 330.000 soldati fra morti e dispersi e di 209.000 prigionieri e allo Chemin des Dames, nel maggio del 1918, dove i tedeschi sfondarono il fronte e nel giro di una settimana penetrarono in profondità per oltre 100 chilometri). Ma negli altri paesi si è tenuto sempre a minimizzare se non a dimenticare le sconfitte subite mentre gli italiani, per un deplorevole spirito di autolesionismo che dura da 90 anni, quasi si compiacciono di ricordare quel tragico evento. La vittoria austro – tedesca dell’ottobre del 1917 rappresentò un grande successo tattico, ma si dimostrò un insuccesso strategico poiché quella battaglia non riuscì a eliminare l’esercito italiano che dopo quella sconfitta, insieme al popolo, sul Piave reagì vigorosamente per combattere l’ultima battaglia del Risorgimento.
Caporetto fu una battaglia perduta: esattamente un anno dopo la paurosa notte di Caporetto, l’Italia a Vittorio Veneto, sconfiggeva definitivamente le armate austro – ungariche creando le premesse per la fine anticipata del lungo e sanguinoso conflitto mondiale.
La grave situazione richiese di adottare una nuova strategia. Fra governo e Comando Supremo si instaurò un dialogo di massima collaborazione determinato da una mentalità più moderna. Vennero presi significativi provvedimenti a favore dei soldati per migliorarne le condizioni di vita: furono concessi turni di licenza più frequenti, migliorato il vitto, venne istituita una polizza assicurativa in caso di morte dei combattenti, venne data maggiore attenzione ai problemi morali e materiali del soldato e delle loro famiglie.
Vennero elaborati nuovi procedimenti tattici rivolti ad eliminare gli errori che avevano provocato la ritirata di Caporetto e la perdita di tante vite umane.
Dopo la ritirata al Piave l’esercito italiano venne a trovarsi schierato su una nuova linea difensiva di circa 200 chilometri più corta di quella precedente: rimasta immutata dal Passo dello Stelvio sino all’Altopiano di Asiago si saldava ai contrafforti del massiccio del Grappa per scendere sul Monfenera e distendersi poi lungo il corso del Piave sino al mare.
Vista la gravità della situazione sul fronte italiano, Francia ed Inghilterra decisero l’invio di un corpo di spedizione in aiuto all’esercito italiano. Anche gli Stati Uniti d’America contribuirono al potenziamento dell’esercito italiano con l’invio di materiali di ogni genere.
Ai primi di novembre quattro divisioni francesi raggiungevano Vicenza, la 46a e 47a di Cacciatori delle Alpi e la 64a e 65a del XXXI Corpo d’Armata. Nei giorni seguenti giunsero in Italia due divisioni inglesi, la 23a e 24a. Fra il 20 novembre ed il 2 dicembre vennero inviate nel Veneto altre due divisioni francesi e quattro divisioni inglesi.
Il nemico, imbaldanzito dal successo, non allentò la pressione e sull’Altopiano di Asiago esso attaccò furiosamente. Il 4 dicembre sferrò un formidabile assalto contro le difese della 29a Divisione; alpini, fanti e bersaglieri resistettero sino all’esaurimento ma poi dovettero ripiegare sulla linea Monte Val Bella - Val Franzela - Col del Rosso.
Per tutto il mese di novembre e quello di dicembre le posizioni del Grappa furono sottoposte a martellanti bombardamenti e incessanti attacchi dai reparti del generale Krauss, ma gli italiani riuscirono a reggere il potentissimo urto con disperato eroismo e al prezzo di immensi sacrifici.
Non occorre conoscere l’alta strategia per comprendere l’importanza che aveva il massiccio del Monte Grappa nella nuova linea difensiva Altopiano di Asiago-Monte Grappa - basso Piave.
Esso rappresentava un caposaldo di saldatura fra la linea difensiva degli Altipiani e quella del Piave, un pilastro fondamentale per entrambi. Se il Grappa avesse ceduto, avrebbe trascinato nella sua caduta l’intero fronte degli Altipiani e del Piave.
A difesa del Grappa venne inviata la 4a Armata con il XVIII Corpo d’Armata e la 17a Divisione del IX Corpo d’Armata rinforzata con la Brigata Como. Le forze sul terreno presero la seguente articolazione:
- 51a Divisione sui costoni che strapiombano sulle valli del Cismón del Brenta (Monti Asolone, Col della Berretta, Col Caprile, alture fra il Monte Roncone e il Monte Prassolan);
- 15a Divisione, al centro della difesa, sul Monte Grappa e sui costoni fiancheggianti la valle di Seren (posizioni avanzate del Monte Roncone, Monte Prassolan, Col dei Prai, Monte Pertica, Monte Costón, Col dell’Orso, Solarolo);
- 56a Divisione, sul Monte Tomatico, Monte Peurna, Monte d’Avien, Monte Fontanasecca, Monte Spinoncia, Monte Pallone, posizioni del Boccaor;
- 17a Divisione del IX Corpo d’Armata schierata sulle posizioni del Monte Tomba-Monfenera, con presidi avanzati a nord di Quero, sul Monte Tese-Rocca Cisa-Monte Cornella.
Il Gruppo Krauss che aveva come obiettivo la conquista del Monte Grappa disponeva, inizialmente, di 4 divisioni: a destra in Val Brenta, agiva la Divisione Edelweiss (austro-ungarica); al centro, contro il Grappa, la 22a Kaiserschützen; a sinistra, in Val Piave, la 55a Divisione (Bosniaci e Carinziani); in riserva era la Divisione Cacciatori Germanici. In seguito al gruppo iniziale si aggiunsero rinforzi del XX Corpo d’Armata e della 10a Armata.
L’attacco iniziò il 13 novembre. Il Monte Pertica, posizione di importanza decisiva per arrivare alla Cima del Grappa, venne conteso senza tregua dall’uno e dall’altro, flagellato senza posa dal fuoco delle artiglierie, terribile spettro di sofferenze inaudite, di sangue e di morte. Per numerose volte la vetta fu perduta, riconquistata e poi perduta, ma nonostante l’esito sfavorevole agli italiani, le truppe del generale Krauss non riuscirono mai ad andare oltre.
Sino al 21 dicembre si svilupparono numerosi violentissimi attacchi, appoggiati da un massiccio fuoco di artiglieria, ma l’avversario non riuscì mai a violare le posizioni di capitale importanza del Monte Grappa e del Piave.
L’offensiva austro-tedesca aveva raggiunto il suo culmine, oltre non le era stato possibile avanzare in virtù della forza di volontà e delle tenacia dei soldati italiani. Sul Monte Grappa i nostri fieri avversari si trovarono di fronte un nemico diverso da quello incontrato a Caporetto, un avversario che nel giro di pochi giorni aveva cambiato volto e spirito.
La fine dell’anno si chiudeva con un brillante successo dei nostri alleati francesi sistemati a difesa delle pendici del Monte Grappa a fianco degli italiani. Il 30 dicembre tre Battaglioni francesi di Chasseur des Alpes della 47a Divisione riconquistavano la cima del Monte Tomba e la dorsale del Monfenera, perduta dagli italiani il 22 novembre, dopo una accanita resistenza.
Dopo numerosi tentativi di sfondare le nostre linee sul M. Grappa, a fine dicembre le truppe tedesche lasciarono l’Italia per ritornare sul fronte occidentale.
Col Caprile, Monte Pertica, Col della Berretta, Monte Asolone, Monte Fontanasecca, Monte Valderoa, Monte Solarolo, Col dell’Orso, Monte Spinoncia, Monte Tomba, Col Moschin sono cime ormai consacrate alla storia d’Italia.
Vale la pena di conoscere cosa in seguito scrisse il generale Krafft von Dellmensingen, prestigioso e cavalleresco capo di Stato Maggiore della 14a Armata, all’indomani della battaglia di Caporetto: “Così si arrestò, a poca distanza dal suo obiettivo, l’offensiva ricca di speranze, ed il Grappa diventò il “Monte Sacro” degli italiani. D’averlo conservato contro gli eroici sforzi delle migliori truppe dell’esercito austro-ungarico, e dei loro camerati tedeschi, essi, con ragione, possono andare superbi!”.
Dopo il successo riportato sul Grappa il generale Diaz si dedicò instancabilmente all’opera di ricostruzione dell’esercito mediante l’apprestamento di mezzi adeguati. Nel giro di pochi mesi vennero rimpiazzati tutti i materiali perduti nella ritirata: armi, munizioni, mitragliatrici, mortai, cannoni, automezzi, aeroplani e materiali sanitari. Le grandi unità vennero ringiovanite con la chiamata alla leva dei “ragazzi” della classe del ‘99, allora appena diciottenni e impiegati subito in prima linea a fianco dei soldati veterani per sbarrare la via all’invasore. Il loro apporto si dimostrò molto importante per la vittoria finale.
Durante i mesi invernali, sulle trincee tormentate dai sanguinosi assalti e contrassalti, il generale inverno impose una tregua.
Sosta che il Comando Supremo utilizzò per completare il consolidamento del fronte e che dai nostri temprati avversari venne sfruttata per preparare una nuova potente offensiva contro l’Italia.
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