di Paolo Lepri
Arthur Travers Harris, l’”Air Chief Marshal” britannico che decise settanta anni fa di trasformare Dresda in un ammasso rovente di macerie, non ha mai avuto dubbi. “Lo farei di nuovo, se il tempo dovesse tornare indietro”, disse in un’intervista nel 1977. Gli storici, invece, hanno discusso a lungo sulla effettiva necessità di colpire la popolazione civile di una città che fino a quel momento era stata risparmiata e che non si aspettava la geometrica potenza dei bombardamenti alleati. Un’inutile dimostrazione di forza per “fiaccare il morale” dei tedeschi o il calcolo strategico dei comandi anglo-americani per sostenere l’impegno sovietico in Europa e accelerare la disfatta hitleriana? Sta di fatto, comunque, che il capoluogo sassone rappresentava all’inizio del 1945 l’ultimo centro di produzione funzionante dell’industria nazista degli armamenti e un fondamentale snodo di trasporto. Secondo lo storico Max Hastings si trattò di un tentativo in buona fede, anche se sbagliato, di condurre la Germania alla sconfitta. Lo stesso Hastings ha però riconosciuto che in Inghilterra, poi, “nella sicurezza della pace, il ruolo svolto dai bombardieri fu una cosa che molti politici e civili avrebbero preferito dimenticare”. Erano le 21,45 del 13 febbraio quando scattarono gli allarmi antiaerei, come accadeva ormai quasi tutti i giorni a partire dal dicembre del 1944. Ma quella sera i caccia non erano diretti altrove. La prima ondata di ordigni esplosivi sventrò gli edifici, poi le bombe incendiarie crearono un inferno di fuoco. Era la prima ondata della Royal Air Force, alla quale ne seguì una seconda, ancora più devastante. L’indomani entrò in azione l’aviazione americana che colpì nuovamente “a tappeto” anche il giorno successivo. Secondo le stime più attendibili le vittime sono state almeno 25.000. A ogni abitante di Dresda toccarono 42,8 metri cubi di macerie. Fonte: http://www.corriere.it/esteri/15_febbraio_11/dresda-1945-2015-70-anni-fa-tre-giorni-inferno-terra-b99129f8-b1f5-11e4-a2dc-440023ab8359.shtml
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