di Cristina Tronchin
Il 7 aprile 1944, oltre ad aver segnato in maniera indelebile la nostra città, ha marchiato cuori e memoria di una generazione di giovani di cui oggi riportiamo quattro testimonianze.
Martedì 25 marzo mi ritrovo in vicolo Cal di Breda a Santa Maria del Rovere con Beatrice “Dirce” Slongo (classe 1929), Margaret Slongo sorella di Beatrice (classe 1932), Mario Zambon marito di Margaret (classe 1930) e Giuseppe “Bepin” Visentin (classe 1928). Si conoscono da una vita perché tutti originari del quartiere ma è la prima volta che si ritrovano assieme per parlare della guerra.
“Lo sai chi erano i Liberatori e le fortezze volanti?” mi chiede subito Giuseppe -. Gli aerei americani si chiamavano Fortezze Volanti e la fabbrica che li produceva era la Liberator. Per questo venivano chiamati Liberatori, invece, purtroppo ci hanno uccisi tutti”, spiega Giuseppe.
Bombe a grappoli
“Fin che Treviso non fu bombardata qui era tutto tranquillo – racconta Mario – ma dopo il bombardamento eravamo tutti sotto shock; ci sembrava impossibile che fosse successo. Mi ricordo che si vedeva benissimo quando gli aerei aprivano i portelloni e cominciavano a venir giù le bombe; il caposquadriglia lanciava un razzo e poi gli altri aprivano i portelloni. Quello del 7 aprile fu solo il primo di una serie di altri bombardamenti”.
“L’ultima bomba di quel 7 aprile – ricorda Giuseppe – cadde vicino a Piazza d’Armi.” “Nostra sorella Carmen – racconta Beatrice – lavorava in via Manin e dopo il bombardamento ha dovuto fare il giro per Santa Bona per tornare a casa perché non si passava da nessuna parte. Santa Maria del Rovere, invece, è stata meno colpita; siamo stati fortunati. Ogni volta che suonava la sirena d’allarme andavamo a rifugiarci sotto al bancone da falegname di mio papà; mia sorella Ida diceva: Dirce scumissia a dir el Salve Regina, e io le rispondevo: qua morimo prima, ze mejo che disemo un Gloria al Padre”.
Fumo e ceneri oscurarono la città
“Mezz’ora dopo il bombardamento – riprende Mario – a Treviso e nei quartieri periferici era tutto buio. Il fumo e le ceneri nell’aria avevano oscurato tutto; subito ci venne in mente il passo del Vangelo che recita: si fece buio su tutta la terra. Io e la mia famiglia abitavamo in una via molto trafficata e ricordo che siamo scesi tutti in strada; i genitori arrivavano con le bottiglie di grappa per bere un bicchierino tutti assieme e farsi coraggio. Appena dopo il bombardamento io e miei amici siamo andati in città passando per via Cantore, per il Chiodo e per varco Filippini. C’erano macerie dappertutto; siamo arrivati in Piazza dei Signori e abbiamo trovato Palazzo dei Trecento completamente devastato. Siamo tornati verso casa passando per San Leonardo: nella chiesa erano stati portati i primi morti ed era già cominciato il pellegrinaggio di chi aveva parenti che non erano tornati a casa; facevano il giro in chiesa e alzavano le lenzuola una ad una. E fu così anche per i giorni successivi; in tutte le chiese venivano portati i morti”.
“La domenica – continua – io con tutta la mia famiglia siamo andati a messa perché era il giorno di Pasqua ed abbiamo fatto un giro per la città. Ricordo come fosse adesso che c’erano quelli dell’Unpa con un lenzuolo per terra sopra il quale appoggiavano i resti umani che raccoglievano in giro”.
Rifugi poco sicuri
“Quando arrivava l’allarme, mia mamma – continua Margaret – non voleva andare via di casa per non lasciare sola mia nonna. E io chiaramente non volevo andarmene perché volevo stare con la mamma. Del 7 aprile la cosa che più ancora mi sconvolge è la storia dei signori Stringa e dei loro figli; abitavano in via Gen. Cantore ed avevano costruito un rifugio in casa. Durante il bombardamento il marito andò con i bambini nel rifugio mentre la moglie rimase in casa perché stava facendo da mangiare. I due bambini purtroppo morirono nel rifugio per lo spostamento d’aria. Sono i signori Stringa che hanno restaurato la chiesa della Madonnetta”.
“I rifugi – sostiene Giuseppe – erano stati costruiti in modo completamente sbagliato e la gente si è accalcata dentro trovando la morte. I rifugi dei Bagni, quelli di Sant’Antonino, sono stati tutti bombardati. A proposito di Sant’Antonino: io lì avevo una zia che all’epoca era incinta. Quando Treviso venne bombardata il parto era imminente; al suono dell’allarme per fortuna lei e la sua famiglia sono riusciti a scappare. La sua casa e tutto ciò che stava attorno venne bombardato. Mio zio, che lavorava a Bolzano, appena sentito del bombardamento prese la bici e venne a Treviso. Arrivò e trovò tutto distrutto, non sapeva se i suoi erano vivi o morti e cominciò a chiedere notizie a chiunque. Solo dopo qualche giorno venne a sapere che la sua famiglia era sfollata in campagna”. “Anche noi, subito dopo il 7 aprile, - aggiunge Mario – sfollammo in campagna, a Carbonera. Una famiglia ci diede una stanza; mia mamma con gli altri figli dormiva lì ma io e mio papà dormivamo in granaio ed avevamo i topi che ci correvano sopra mentre dormivamo”.
“Per la paura – riprende Giuseppe – siamo scappati tutti in campagna. Qui a Santa Maria del Rovere per una settimana non fecero altro che passare carretti di gente sfollata. In centro era pericoloso stare: c’erano bombe inesplose e luce, gasdotti ed acquedotto avevano perdite”.
“E poi venne il bombardamento notturno, a maggio, – aggiunge Margaret – e con i bengala illuminarono tutto a giorno.” “Mentre scavalcavo la ferrovia per scappare – ricorda Beatrice – persi un sandalo ma pur di non tornare indietro sono andata avanti senza. Dopo il bombardamento mia sorella Carmen, per la paura, decise di andare ad abitare nel campanile di Fontane assieme ad altre persone. Vi rimasero fino al ’45. Nel frattempo i tedeschi avevano iniziato a chiamare gente per fare le trincee, tra cui anche Carmen. Lavoravano tanto ma pagavano bene, in soldi tedeschi, quelli in rotolo che, una volta a casa, si srotolavano e si tagliavano”.
“Mio papà, invece – racconta Mario – lavorava per i tedeschi nel cantiere navale di Casier. Dopo i bombardamenti notturni partiva da dove eravamo sfollati per venire a Treviso e controllare se la nostra casa era ancora in piedi”.
“Eravamo tutti talmente poveri – spiega Margaret – che la gente disfava i sacchi dello zucchero e portava, a noi che facevamo le magliaie, i fili per fare magliette. I paltò, invece, li facevamo con le coperte dei militari. Tutti i vestiti erano vestiti rilavorati dei militari perché non c’era altro”.
“Ricordo – conclude Beatrice – che il vescovo Mantiero, una volta finita la guerra, andò a prendere in montagna i prigionieri che tornavano a piedi dai campi di concentramento tedeschi. I soldati che tornavano a casa dopo l’8 settembre si fermavano nelle stazioni fuori mano per non farsi trovare dai gendarmi; purtroppo quelli che non riuscirono a scappare vennero portati nei campi di concentramento”.
Fonte: http://www.lavitadelpopolo.it/Dossier/7-aprile-1944-e-in-citta-si-fece-buio
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